Posts written by #Michelle

  1. .
    Titolo: Weakness
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Chuck Hansen, Hercules Hansen
    Genere: Introspettivo, Erotico
    Rating: Rosso
    Avvertimenti: Oneshot, Slash, Lemon, Incest
    Conteggio Parole: 785
    Note: 1. Scritta di getto davanti a questo prompt della community Pacific Rim Kink Meme
    2. PWP con un pizzico di sentimento *muore*
    3. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD




    Herc ansimava contro il palmo della mano di Chuck. Stringeva i pugni contro il muro, tremando e tentando di non spingersi verso l’altra che lo toccava sfregandosi ritmicamente sul suo sesso.
    Ma era difficile. Perché Chuck era tutto quello che lo circondava: dal suo profumo ai suoi modi.
    Lo costringeva al silenzio perché odiava sentirlo parlare - non voleva sentire la sua voce perché apparteneva a suo padre - ma al contrario lui parlava tanto.
    Lo faceva direttamente nel suo orecchio, sussurrando delle cose così oscene che chiunque avrebbe perso la testa anche solo nel sentirle.
    Chiuse gli occhi ed il suo bacino andò inconsciamente incontro alla mano di Chuck, lo sentì addirittura ridacchiare per quella sua reazione.
    « Non resisti più?», gli chiese divertito, « Vuoi che ti faccia venire?», insistette, rallentando di un poco le sue carezze. Herc, pur non potendo parlare, non riuscì a trattenere un mugugno contrariato e Chuck, compiaciuto, aumentò di nuovo il ritmo fino a renderlo frenetico.
    Gli leccò l’orecchio, premendo il bacino contro le natiche dell’uomo per fargli sentire la sua erezione ancora insoddisfatta, rinchiusa dentro i pantaloni.
    Herc non poté non fremere per il piacere, imprecando mentalmente per quei brividi che lo scossero.
    « Lo vuoi? Vuoi che ti prenda così? Qui, contro il muro?», lo interrogò ancora il ragazzo, muovendo il bacino.
    L’uomo si costrinse a restare immobile, gemendo però più chiaramente quando la mano di Chuck abbandonò la sua bocca. Lo sentì muoversi alle sue spalle poi alle sue orecchie giunse il rumore metallico della cintura e quello della zip, seguiti poi dal frusciare dei pantaloni che venivano abbassati.
    L’erezione di Chuck premette contro le sue natiche ed Herc, incapace di trattenersi, gli andò incontro mordendosi le labbra.
    Altre maliziose domande giunsero alle sue orecchie, ma non rispose perché Chuck non voleva sentirlo parlare ed l’uomo, nonostante tutto, non voleva che tutto quello finisse.
    Due dita umide penetrarono subito nella sua apertura, strappandogli un vago lamento. Le sentì subito muoversi e vagare tra la sua carne, spingersi sempre più in fondo e piegarsi quando ai bassi lamenti si aggiungevano dei mugugni.
    Herc, accettando il desiderio del figlio, si lasciò scopare da quelle dita muovendosi verso di lui senza pudore perché ormai, come diceva sempre, se quello era l’obiettivo lui doveva sparare.
    Le dita scavarono ancora nella sua apertura, e quando l’orgasmo si fece prossimo Chuck glielo negò ancora, allontanando le falangi ed arrestando i movimenti dell’altra mano.
    La frustrazione proruppe con un gemito dalle sue labbra, ma venne subito bloccata dall’erezione del ragazzo che si fece strada dentro la sua apertura.
    Chuck riprese a masturbarlo, donandogli quelle piccole attenzioni volte a fargli dimenticare l’iniziale fastidio - quella era l’unica dolcezza che suo figlio sembrava essere in grado di concedergli.
    Il ragazzo fece ondeggiare il bacino, spingendo l’erezione all’interno dell’orifizio di Herc un poco alla volta.
    « Sei maledettamente stretto», ringhiò Chuck, mugugnando poi qualcosa che alle orecchie dell’uomo suonò come un “papà” che gli lasciò tuttavia l’amaro in bocca.
    Perché quella era e sarebbe rimasta solamente una piccola debolezza che il ragazzo avrebbe negato fino alla morte, esattamente come quell’amplesso che si faceva sempre più intenso.
    Chuck infatti raggiunse presto l’orgasmo gemendo direttamente nel suo orecchio senza neanche tentare di trattenersi. Herc sentì invece il viso bruciare ancor di più dinnanzi alla sensazione di quel seme caldo che lo riempieva, ma distratto dalle carezze ormai sempre frenetiche del figlio, non poté far altro che ansimare a sua volta prossimo all’apice.
    « Vieni per me, vecchio», sibilò Chuck con voce roca, rubandogli dei nuovi tremiti che lo condussero ad un violento orgasmo. Il suo seme schizzò sul muro e sul pavimento, sporcando la mano del ragazzo e privando l’uomo per qualche istante dell'equilibrio.
    Rischiò quasi di accasciarsi contro il muro ma Chuck, scivolando fuori dal suo orifizio, lo afferrò per le spalle e lo costrinse con la schiena sulla parete.
    La mano del ragazzo si posò prontamente sui suoi occhi con fermezza, impedendogli di guardarlo in volto, e a quel gesto ne seguì subito un bacio quasi rabbioso.
    Le gengive e i denti si scontrarono con forza, dando un sapore ferroso a quel bacio, ma nessuno dei due si allontanò o dimostrò di trovare spiacevole quello scontro mentre le loro lingue si intrecciavano.
    Herc non ebbe il coraggio di fiatare neanche quando Chuck, staccandosi come scottato, si sistemò rapidamente i pantaloni per allontanarsi con altrettanta premura.
    Osservò la figura del figlio sparire nel corridoio deserto e soffocò a stento il bisogno di corrergli dietro e di abbracciarlo. Desiderava stringerlo con forza a sé, dirgli che lo amava e che sarebbe andato tutto bene…
    Inghiottì quell'assurda necessità - era certo che Chuck non lo avrebbe mai perdonato per una simile debolezza - e passandosi la mano in viso con fare stanco e quasi sconsolato, cercò a sua volta di imitarlo e di rivestirsi.




  2. .
    Titolo: I need a miracle to make it through
    Titolo del Capitolo: 2. Come Back in my Life
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Hercules Hansen, Chuck Hansen, Raleigh Becket, Mako Mori
    Genere: Introspettivo
    Rating: Giallo
    Avvertimenti: Leggero Slash, What if? (E se…)
    Conteggio Parole: 2430
    Note: 1. Chuck non muore. Tutto qui ù_ù Hansencest feels *muore d’amore*
    2. Ispirata a quest’immagine di kaijusizefeels. L’immagine in questione la ritroverete anche nel banner ù_ù
    3. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD





    Solo dopo alcune ore di interventi e controlli, i medici permisero ad Herc di avvicinarsi al figlio e di sedersi accanto a lui.
    « Dobbiamo portarlo in una struttura specializzata», avevano detto, per illustrargli poi i danni riportati dal ragazzo, « Oltre alle escoriazioni riportate durante in combattimento e durante la detonazione, abbiamo riscontrato alcune lesioni interne. Quali qualche costola incrinata e delle fratture, chiuse e scomposte, nell'avambraccio e nel femore, entrambe nel lato sinistro»
    Herc annuì, continuando però ad osservare il volto pallido del ragazzo ed il respiratore che nascondeva le sue labbra.
    « Supponiamo che lo shock lo abbia condotto ad un coma forzato, non possiamo dirvi con sicurezza quando riprenderà i sensi», continuò il medico per poi rassicurarlo con un: « ma i suoi paramenti vitali sono stabili».
    « Vi ringrazio», rispose l'uomo sincero, prendendo la mano destra del figlio per portarla delicatamente alle labbra.
    Era fredda, priva di forza e vita, ma cercò di non pensarci e di concentrarsi solo sul fatto che suo figlio fosse vivo.
    C'erano tante cose che desiderava dirgli, cose che con ottime probabilità Chuck già conosceva grazie al drift ma che gli avrebbe ugualmente detto perché non voleva più lasciare niente di incompiuto con lui, non dopo aver ottenuto quella seconda possibilità.
    Chiuse gli occhi.
    « Torna presto a casa, figliolo», mormorò piano sulla pelle fredda del ragazzo.



    Erano passati sette giorni dalla definitiva chiusura della Breccia ed Herc, nonostante i suoi obblighi, non aveva mai abbandonato il capezzale del figlio ancora in coma.
    Per la prima volta nella sua vita, Hercules Hansen voleva essere egoista e dire: la famiglia prima di tutto.
    Infatti, aveva scelto di non partecipare ai funerali dei ranger caduti, ne tanto meno alle numerose rassegne stampa per illustrare l'Operazione Pitfall.
    Anni prima aveva dovuto fare una scelta nella quale aveva messo l'esercito davanti ai suoi obblighi familiari, e quando aveva creduto di aver perso Chuck, era stato solamente in grado di comprendere quale fosse il suo vero posto.
    Aveva quindi delegato ogni potere a Tendo Choi e ai dottori Newton Geiszler ed Hermann Gottlieb affinché facessero le sue veci insieme alla signorina Mori e a Raleigh, e si era tagliato volontariamente fuori dal mondo.
    Il suo nuovo mondo era quella stanza di ospedale, che sarebbe stata anonima e spoglia se non fosse stato per il letto occupato da Chuck - sfortunatamente ancora attaccato alle macchine - e da Max che, paziente, era rimasto accoccolato ai piedi del suo padroncino.
    Il cane, sconsolato, avvertiva tanto quanto lui la mancanza di Chuck, e quando non uggiolava alla ricerca di attenzioni, dormiva cone in quel momento.
    Sospirò e si passò una mano sulla faccia, sfregando poi le dita sugli occhi mentre l'altra restava ancora appesa al suo petto - inerme, come il suo braccio in lenta guarigione.
    Quasi invidiava la capacità di Max di dormire, perché lui non lo faceva decentemente da quando erano giunti in quella camera, partendo dall'infermeria dello Shatterdome.
    I controlli continuavano a rilevare dei valori stabili ed era rassicurante sapere che il ragazzo fosse in buone condizioni - nonostante i danni causati dalla detonazione -, ma per quanto la situazione fosse sotto controllo, Chuck sembrava non volersi svegliare.
    I medici tuttavia continuavano ad essere abbastanza positivi per quanto riguardava la sua ripresa - un po' meno riguardo alla presenza di Max - e più volte avevano tentato di spingere Herc ad abbandonare la stanza, ma l'uomo era irremovibile.
    Lui ed il cane non si sarebbero mossi da quel luogo.
    Nonostante quella sua ferrea decisione, si era ovviamente concesso delle brevi pause per mangiare - ben poco, giusto per non collassare -, ed andare in bagno e prendersi cura del cane, ma non si era mai allontanato troppo.
    Doveva essere lì, accanto a Chuck, quando questo si sarebbe svegliato... e sperava accadesse presto.
    Si mosse un poco sulla sedia - la schiena gli faceva male a causa della posizione -, poi dei passi lo costrinsero a tendere le orecchie e a tirarsi quasi su.
    « Signor Hansen?», si voltò lentamente verso l'infermiera, pronto a declinare l'ennesima proposta di andare a casa, « Ha delle visite»
    Non era la prima volta che riceveva visite.
    Sciacalli - o più comunemente noti come 'giornalisti' - che cercavano notizie ed indiscrezioni sulla salute di Chuck.
    « Non desidero ricevere visite», rispose calmo - aveva più volte mandato via quelle persone: non voleva ripetersi.
    « Ma signore...», la giovane donna esitò, incerta se continuare o meno, « Sono la signorina Mori e il signor Backet».
    L'espressione di Herc mutò all'istante facendosi più rilassata nel sentire quei nomi.
    « Allora può farli entrare», rispose, aggiungendo poi un: « grazie», per congedare l'infermiera.
    Fissò la porta, accennando un piccolo sorriso quando vide i apparire i familiari visi di Mako e Raleigh.
    « Salve, signore!», lo salutò Becket con un ampio sorriso, puntando però subito gli occhi sul letto e sulla figura immobile di Chuck.
    « Ragazzi», rispose Herc, alzandosi per accoglierli.
    Non era nelle sue condizioni migliori, ma non gli importava granché.
    « Come state?», chiese.
    « Stanchi ma siamo qui», rispose Raleigh, continuando poi con un: « Lei invece? Ci sono novità?», mentre gli stringeva la mano, imitato subito da Mako, ben più silenziosa.
    « Ha subito alcuni traumi nella detonazione. Per ora i valori stabili però, anche se non si è ancora svegliato», iniziò Herc, « i medici almeno sono abbastanza positivi».
    « È una fortuna», mormorò Mako, chinandosi per coccolare Max, attratto a sua volta da quei visi familiari.
    L'uomo la seguì con lo sguardo, incapace di ignorare l'ombra di tristezza che le velava gli occhi.
    « Mi dispiace per Stacker», esordì piano, « era un mio buon amico», continuò incrociando le iridi scure della ragazza.
    Sapeva di essere stato un egoista quando aveva deciso di non partecipare al funerale del ranger caduti.
    Tra quelli c'era anche Stacker Pentecost. Un suo amico oltre che padre adottivo di Mako. Colui che, probabilmente, aveva anche salvato Chuck.
    La sua scelta, che poteva anche essere definita 'mancanza di rispetto', aveva ancora una volta fatto soffrire qualcuno.
    La ragazza però sorrise appena.
    « Lo so», rispose, « ma non deve farsene una colpa», precisò sincera, cancellando i dubbi ed i pensieri di Herc, che era quasi arrivato a credere che la giovane potesse aver pensato: "Perché lui e non Stacker?"
    « Saremo voluti passare prima», riprese Mako, « ma siamo sempre molto occupati».
    « Posso comprendere. Siete degli eroi», rispose Herc un poco rincuorato, « ultimamente però non ho seguito i notiziari», ammise poi.
    « Non si è perso niente», ribatté il giovane uomo, « interviste. Vogliono fare un 'tour della vittoria'».
    « Sì?»
    « Ma vogliamo che siano tutti presenti», concluse Raleigh, guardando di nuovo Chuck.
    « Intanto sono già in corso delle opere di ricostruzione», continuo Mako.
    « Tendo se la sta cavando da solo?», li interrogò Herc.
    « Alla grande. Anche se deve combattere con Newt ed il Dottor Gottlieb. Ha accettato questa pausa con molta gioia», ridacchiò Raleigh, diventando poi serio di punto in bianco, « E se mi permette, signore, credo che anche lei abbia bisogno di una pausa».
    « No», rispose prontamente Herc.
    « So che vuole restare qui. Ma dovrebbe ugualmente mangiare e dormire».
    « È fuori discussione, non posso lasciarlo», tagliò corto.
    Era abituato ad affrontare quel discorso e sapeva benissimo come controbattere.
    « A Chuck farebbe piacere vederla in forma e non in queste condizioni», gli fece presente Mako ed Herc, nonostante la sua ostinazione, non poté che darle ragione.
    Chuck era così orgoglioso che non avrebbe mai accettato l'idea di vederlo in quello stato.
    « Ma non posso lasciarlo solo», sospirò.
    « Resto io», rispose gentile Raleigh, « giusto il tempo per farvi riposare, signore».
    « Io posso occuparmi di Max, vorrà tanto fare una passeggiata all'aria aperta», propose Mako e l'uomo trasse l'ennesimo sospiro.
    « E... se si svegliasse?»
    « Sareste il primo ad essere avvertito», rispose Raleigh.
    « La vostra visita era mirata a questo?», chiese poi, cercando ancora di rifiutare quella proposta.
    « No», la ragazza scosse il capo, « l'infermiera ci ha solo illustrato le vostre condizioni, signore».
    Herc annuì piano, ancora incerto.
    « Herc», riprese Raleigh con più confidenza, « lo sai meglio di me quanto Chuck è orgoglioso. Se ti vedesse in questo stato si arrabbierebbe»
    E l'uomo sapeva di dovergli dare ragione.
    « D'accordo», assentì, « Ma solo per qualche ora...», precisò.
    « Affare fatto», esclamò Raleigh soddisfatto, ed Herc, voltandosi verso Chuck, non riuscì a trattenersi dal baciargli la fronte.
    « Torno presto, figliolo», mormorò sulla sua pelle, rivolgendogli poi l'ennesima muta richiesta nella quale lo pregava di svegliarsi.



    Da quel giorno era passata quasi un'altra settimana ed Herc, nonostante l'ormai costante presenza di Raleigh e Mako - che si presentavano quasi ogni giorno da lui per 'dargli il cambio' o per tenergli compagnia -, stava lentamente iniziando a perdere le speranze.
    Anche se restava stabile, Chuck sembrava non voler dare segni di ripresa ed Herc iniziava a temere che non sarebbe mai più stato in grado di abbracciarlo, né di sentire la sua voce ed il profumo.
    Che tutto sarebbe lentamente sparito, lasciandolo con quel vuoto nel cuore.
    Neanche i sogni riuscivano ad aiutarlo, perché il suo sonno - quello che si concedeva durante le poche ore in cui Mako o Raleigh prendevano il suo posto - era privo di sogni.
    La preoccupazione lo sfiancava, e quando chiudeva gli occhi gli sembrava di non aver minimamente riposato nonostante l'orologio segnasse un orario diverso. Ma, d'altro canto, era meglio che fosse così.
    Lui voleva Chuck. Non dei ricordi o dei sogni.
    Sospirò, carezzando ancora la mano del figlio inerme tra le sue.
    « Come al solito, vuoi fare la prima donna e farti attendere, eh Chuck?», mormorò, cercando di sorridere.
    Attese inutilmente una risposta - avrebbe anche accettato un « smettila di comportarti come una femminuccia, vecchio» - e, chiudendo gli occhi, si sistemò meglio sulla sedia con le orecchie tese.
    Si concentrò sui regolari rumori dei macchinari per tenere la sua mente sgombra da ogni pensiero negativo... ma non era semplice.
    Giorno dopo giorno la paura di dimenticare ogni cosa cresceva insieme alle sue speranze che si assottigliavano.
    Avrebbe mai più sentito la voce di Chuck? Baciato le sue fossette? Ispirato il profumo della sua pelle?
    Erano tutte cose che aveva sempre dato per scontate. Ed ormai gli restava solo il silenzio e la voglia di dirgli che era fiero di lui, che gli dispiaceva per aver sbagliato tanto nei suoi confronti... che lo amava più di qualsiasi altra cosa al mondo.
    « Non ne hai bisogno».
    Sussultò stupito, aprendo gli occhi di scatto per incrociare quelli di Chuck, ancora disteso sul letto.
    Tremò, senza essere in grado di muoversi o di emettere anche un solo suono.
    Sognava?
    « Chuck...», esalò, riuscendo ad allungare la mano per stringere quella del ragazzo.
    La sentiva: pelle contro pelle.
    Qualcosa parve quasi spezzarsi, e senza pensarci due volte le sue braccia corsero a cingere il corpo di Chuck.
    « Non devi dire niente. Lo so. L'ho sempre saputo», continuò il ragazzo, ricambiando per qualche attimo l'abbraccio.
    « Pensavo di averti perso», dichiarò l'uomo, sentendo Chuck rilassarsi lentamente tra le sue braccia.
    Gli parve quasi di sentire un sospiro di sollievo abbandonare le tue labbra, come se anche lui avesse sentito quella stessa paura.
    « Sono un Hansen», iniziò Chuck dopo quel breve attimo di silenzio, allontanandosi per poter guardare il padre in volto, « Gli Hansen non muoiono così facilmente», concluse con un ghigno che venne subito coperto dalle labbra di Herc.
    Gli era mancata quella sua espressione - quella che trovava irresistibile ed irritante al tempo stesso.
    Aveva sentito la necessità delle sue battutine ed il suo carattere complicato.
    Gli era mancato Chuck, e non era stato in grado di trattenersi dall'assaggiare ancora quelle labbra.
    Lo baciò lentamente, senza fretta, godendosi quel momento con la chiara intenzione di non farlo finire.
    Lo aveva baciato tante volte in vita sua, ma gli sembravano improvvisamente così poche da perdere quasi significato davanti a quell'unico momento.
    Chuck però lo scostò di nuovo, fissandolo con un'espressione seria.
    « Devi svegliarti», dichiarò.
    « Cosa?»
    « Svegliati, vecchio», insistette Chuck.
    « È un... sogno allora», constatò Herc restando quasi senza parole ed assaporando quell'amara verità.
    Era così disperato da essersi rifugiato in quel sogno così reale e al tempo stesso crudele?
    Si morse l'interno della guancia, incapace di ignorare l'improvvisa necessità che avvertiva di non riaprire più gli occhi.
    Aveva detto di non voler vivere di ricordi ma... non si sentiva poi così certo.
    « Svegliati», ripeté Chuck nervoso.
    « No», Herc scosse il capo.
    « Devi svegliarti. Fallo per me, maledizione!»
    L'uomo distolse lo sguardo, come se non volesse mostrare al figlio la sua sconfitta.
    « Non voglio stare in un mondo dove non ci sei», rispose con decisione.
    « Papà! Svegliati maledizione!»
    L'esclamazione di Chuck, più alta delle altre, lo fece balzare sulla sedia, ed il rumore un tempo ritmico dei macchinari suonò alle sue orecchie ormai fuori controllo.
    Non pensò al sogno, ma solo al fatto che stava accadendo qualcosa e che doveva chiamare i dottori.
    Agì istintivamente, premendo l'interruttore sopra al letto ed accostandosi al ragazzo come per verificare che stesse bene.
    « Chuck?», lo chiamò, notando come l'espressione un tempo rilassata del figlio fosse diventata più dura, quasi sofferente.
    Ripeté ancora il suo nome, rifiutando poi di scostarsi anche quando arrivarono i dottori.
    « Devi essere tu a svegliarti ora! Fallo per me», dichiarò agitato, mentre un medico riusciva a farlo allontanare di qualche metro per permette agli altri di fare i loro controlli.
    Le macchine suonavano ancora impazzite e la sua testa vorticava lasciandolo come in preda alla nausea, ma tutto parve fermarsi quando qualcuno - Chuck! - iniziò a tossire e a lamentarsi.
    « Pa... pà».
    Il dottore quella volta non riuscì a fermare Herc, che tornando al capezzale del figlio incrociò finalmente gli occhi del figlio.
    Erano socchiusi - faticava a tenerli aperti - ma era lì, sveglio.
    Stentava a crederci.
    « Chuck... sei qui...»
    Il ragazzo lo fissava senza parlare o muoversi. Sembrava debole, ma era sveglio e lo stava guardando.
    Herc sentì le lacrime pungergli gli occhi insieme alla voglia di gridare, di alzare le mani al cielo in segno di vittoria e liberazione.
    Era anche pronto ad imitare Max, che felice tentava di arrampicarsi sul letto.
    Suo figlio era tornato da lui, si disse sorridendo in direzione del ragazzo.
    « Signor Hansen dobbiamo fare delle visite», lo riprese il dottore ed Herc, riportato alla realtà, fu costretto a farsi da parte senza allontanarsi però troppo dal campo visivo di Chuck.
    L'uomo non sapeva esattamente quanti minuti passarono, ma dopo tutto quel tempo, quell'attesa gli sembrò quasi nulla quando poté finalmente abbracciare delicatamente il suo ragazzo.
    « Chuck...»
    Lo strinse piano per non ferirlo - non poteva dimenticare le costole ed il braccio fuori uso -, emettendo un sospiro sollevato.
    « I suoi parametri sono stabili», esordi un medico, iniziando poi ad illustrare le varie analisi che dovevano fare da lì a breve, ma Herc lo ignorava.
    Non sentiva proprio le sue parole.
    Sentiva solo il corpo di Chuck debole per quella lunga degenza, ancora incapace di muoversi come desiderava o di parlare chiaramente... ma era premuto contro il suo e nient'altro aveva più importanza.
    « Ben tornato a casa, Chuck».


  3. .
    Titolo: Noisy
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Chuck Hansen (Partecipazione di: Raleigh Becket, Hercules Hansen)
    Genere: Introspettivo, Erotico, Comico
    Rating: Rosso
    Avvertimenti: Oneshot, Slash, OOC
    Conteggio Parole: 520
    Note: 1. Scritta per questo prompt per la community pacificrimkink
    2. Raleigh potrebbe apparire OOC XD
    3.Come sempre la dedico al mio amore<3
    4. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD





    Chuck Hansen non aveva nulla in contrario riguardo alla relazione tra suo padre e quel Rah-qualcosa Becket.
    Non aveva particolari pregiudizi.
    Suo padre inoltre era una persona adulta e, a dirla tutta, non era affar suo dove infilava l'uccello.
    Tuttavia, in quella situazione c'era un qualcosa che lo disturbava...
    « A-ah! C-cazzo! Più forte, H-Herc! A-ah!»
    ... ed era il fatto che la camera di quel Becket fosse proprio accanto alla sua e che quel tipo non sapesse tenere la bocca chiusa, maledizione!
    « S-sì! Sì! Aaa-ah! Herc a-ancora!»
    Chiuse gli occhi con forza e tappò le orecchie con i palmi delle mani, emettendo un lamento soffocato tra i denti.
    Non lo sopportava!
    Doveva per forza essere così rumoroso?
    Quei gemiti - quelle fottutissime frasi! - non lo facevano dormire.
    Chi ci sarebbe riuscito nel sentire simili cose?
    « D-Dio Herc... a-ah-ancora! A-ah sì! Più f-forte! D-di più a-ahn!»
    Ma soprattutto: chi poteva farlo ben sapendo che quell'Herc - che a quanto pareva ci stava dando dentro - era suo padre?
    Lui no di certo.
    « C-così aa-ah... f-fallo di nuovo... ah-ancora... Dio H-Herc! Più forte!»
    Prese il cuscino, premendoselo in faccia più per soffocare le imprecazioni che faticava a trattenere che per non sentire quei versi... e forse un po' anche per nascondere il disagio causato dalle frasi imbarazzanti di Rah-leigh, che sembravano diventare più 'pornografiche' con il passare del tempo.
    « Cristo Herc! Sto a-ah per...»
    Era quasi tentato dallo sbattere i pugni sulla parete pur di fargli smettere.
    Si sarebbero imbarazzati nel sapere che lui stava ascoltando?
    Magari suo padre si sarebbe pure fermato!
    « M-mi dispiace...»
    Chuck si bloccò.
    « S-signore! C-chiedo il a-ahn permesso d-di venire, s-signore».
    Fantastico.
    « L-la prego! No-non le mancherò aah più di ri-rispetto, s-signore...»
    Lo stava... supplicando?
    « I-io h-ho bisogno d-di venire ahh... l-la prego s-signore»
    Maledizione! Lo stava per davvero supplicando!
    « L-la s-scongiuro! Mi a-aah faccia venire, si-signore!»
    « Fantastico davvero», sbottò irritato il ragazzo, con il cuore a mille.
    Non poteva sentire suo padre - che almeno aveva la decenza di non gemere in quel modo così sconsiderato - ma grazie a quell'altro idiota poteva benissimo immaginare quello che Herc gli stava dicendo... e non era una cosa piacevole sapere certe 'abitudini sessuali' del proprio genitore!
    « Merda», imprecò Chuck tra sé e sé, ormai incapace di nascondere l'acceso rossore che gli stava colorando il volto, che divenne quasi incandescente quando Rah-leigh raggiunse l'orgasmo con un gemito molto più alto dei precedenti.
    Nonostante l'imbarazzo, Chuck accolse quel momento con un lamento sollevato oltre che con una mezza erezione - maledetto Herc e maledetto Rah-qualcosa!
    Si passò la mano sul viso, scoprendolo sudato, e alzandosi lentamente si costrinse ad andare verso il bagno per darsi una calmata.
    Evitò di guardarsi allo specchio - non aveva il coraggio di guardare la propria immagine riflessa - per mettere subito la testa sotto il getto d'acqua fredda del lavandino, afferrando poi a tentoni l'asciugamano per tamponare il capo bagnato.
    Sfregò con forza il panno sulla testa, poi con passo incerto tornò indietro con le orecchie ben tese.
    Finalmente nella stanza regnava il silenzio, e sollevato da quella ritrovata pace si distese di nuovo sul letto sperando di riuscire a prendere sonno il più velocemente possibile...
    « A-ah H-Herc! Dammi quella cazzo di l-lingua! A-ah! La v-voglio de-dentro aaahn!»



  4. .
    Titolo: Ghost Drift
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Herc Hansen, Chuck Hansen
    Genere: Introspettivo, Erotico
    Rating: Rosso
    Avvertimenti: Oneshot, Slash, Oral Sex, Incest
    Conteggio Parole: 4060
    Note: 1. Il Ghost Drift: “ A rare, unanticipated consequence of the neural handshake is that a crew will sometimes find that their link remains somewhat active (though muted) even after they’ve disconnected from the hardware. This will invariably manifest as shared dreaming. The condition is known to the pilots as ghost-drifting. It is not common, but the first reported case came reliably from Doctor Caitlin Lightcap herself, the inventor of the Pons system. Even so, Doctor Lightcap and the PPDC’s other experts remain at a loss to explain the mechanisms behind this phenomenon.”
    2. Non è confermato che Herc abbia guidato Lucky Seven con Scott - suo fratello. Ma a me piace questa idea, anche perché Herc nella sua giacca ha il logo di Lucky ù_ù
    3. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD




    Quando alzò lo sguardo su Chuck, questo aveva un ghigno poco rassicurante in viso.
    " Hai le stesse fossette di tua madre", gli avrebbe voluto dire Herc, ma preferì tacere.
    Angela era un argomento tabù per entrambi, ed inoltre suo figlio non sembrava portato per il dialogo - non in quel momento almeno.
    « Chuck».
    Herc sentì la sua voce come se non gli appartenesse e giunse alle sue orecchie roca e debole come se non avesse toccato neanche una goccia d'acqua in quegli ultimi giorni.
    « Papà», rispose Chuck senza smettere di sorridere in quel modo, ed Herc comprese che c'era realmente qualcosa che non andava.
    Chuck non lo chiamava 'papà' da anni, aveva smesso di chiamarlo in quel modo da quando sua madre era morta.
    Trattenne il respiro, cercando poi inutilmente di deglutire anche se continuava a sentire la bocca ancora impastata.
    Il sorriso di ghigno di Chuck parve quasi allargarsi, e come se fosse la cosa più naturale del mondo si sedette sulle gambe di Herc, cingendogli il collo con le braccia.
    Era una sorta di abbraccio - il primo dopo anni e anni nei quali il massimo del contatto che avevano si riduceva al Drift -, ma Herc pensava a tutt'altro.
    Cercava di comprendere il perché di quel gesto così improvviso, il significato di quel sorriso e dello sguardo. Per non parlare della posizione, visto che Chuck sedeva sulle sue gambe tenendo le sue ben aperte e stando quasi attento a far sì che i loro bacini fossero quasi a contatto.
    Era anormale e si sentiva a disagio.
    « Scendi, ragazzo», riuscì a borbottare, ma Chuck - come era ovvio - lo ignorò per rubargli invece un bacio.
    Un maledetto bacio sulle labbra.
    Herc trasalì, ma il suo corpo si rifiutò di reagire.
    " Spostati!", gridava a se stesso, " Spostati, quello è tuo figlio!"
    Ma sembrava dirlo a vuoto mentre Chuck continuava a baciarlo lentamente, carezzandogli le labbra con la lingua come per invogliarlo a partecipare.
    " No!", interiormente scosse il capo.
    Non lo avrebbe mai assecondato, ma si ritrovò ugualmente ad aprire la bocca e a rispondere a quel maledetto bacio.
    Era piacevole e caldo ma non voleva provare quelle sensazioni. Quello era suo figlio, maledizione!
    Tutti i suoi tentativi di ribellione però andarono a vuoto, lasciandolo con la strana sensazione che... che quello non fosse lui.
    Era strano ed anche assurdo.
    Herc sentiva su di sé la consistenza del corpo di Chuck - aveva anche iniziato a toccarlo, dannazione! -, il suo profumo ed i baci.
    Lo sentiva. Eppure sentiva al tempo stesso di non essere 'lui'.
    Era come se fosse intrappolato nel suo corpo.
    Quella sua 'deduzione' era assurda e senza senso, eppure era quella la sensazione che si stava facendo avanti dinnanzi all'incapacità di controllarsi e fermare suo figlio.
    « Papà», ripeté Chuck, ed Herc non riuscì a non tremare per il tono furbo e lascivo utilizzato dal ragazzo che scivolò con le labbra sul suo collo, allargandogli poi con le mani il colletto della maglia per poter proseguire il suo cammino fino alle clavicole.
    Herc non riuscì a trattenere un vergognoso sospiro quando sentì la bocca di Chuck su di sé, lasciando addirittura che tutto il suo corpo venne scosso da dei leggeri brividi che divennero pian piano più intensi quando il ragazzo iniziò ad accompagnare i suoi baci con dei movimenti del bacino.
    Chiuse gli occhi, riaprendoli poi quando sentì tra le dita i capelli di Chuck.
    Quando aveva alzato le mani per toccarlo?
    Il suo corpo aveva agito da solo, e stranamente il ragazzo non parve intenzionato a sottrarsi a quella carezza - come invece avrebbe fatto in altre occasioni -, continuando al contrario a far scorrere le labbra su tutta la pelle nuda che riusciva a raggiungere e a far sfregare i loro bacini coperti da troppi strati di vestiti.
    " Maledizione", pensò Herc.
    Era sbagliato.
    Certo, desiderava riavere suo figlio vicino, recuperare quel rapporto che sembrava spuntare solo con il Drift, ma non in quel modo.
    Tuttavia, la sua bocca sembrava avere altre idee soprattutto quando si socchiuse per lasciarsi sfuggire gli altri bassi sospiri sempre più frequenti.
    « Chuck...», ansimò chiedendosi poi se fosse davvero quella la sua voce.
    Era sensuale e roca, non l'aveva mai sentita in quel modo... e la cosa lo metteva non poco a disagio.
    Che diavolo aveva in mente?
    O meglio: che intenzioni aveva il suo corpo?
    Il ragazzo sorrise come se avesse percepito qualcosa in quel sospiro - qualcosa che neanche Herc era certo di voler sapere.
    « Inizia a spogliarti, poi vedremo che fare vecchio», dichiarò malizioso.
    « Non chiamarmi in quel modo».
    Herc aveva in mente almeno una decina di risposte ed insulti per ribattere all'affermazione di suo figlio, ma quelle parole erano uscite da sole dalla sua bocca.
    « Costringimi, vecchio», ghignò Chuck in risposta, sfidandolo apertamente. Ed Herc si ritrovò ad afferrarlo con forza e sicurezza per la maglietta, facendo schiantare le loro labbra ancora una volta.
    Era... era stato lui ad agire? Era stato lui a parlare poco prima?
    Il disagio, lo stupore ed anche il timore erano ancora ben presenti, ma non poteva ignorare il fatto che 'quella cosa' - il baciarlo e toccarlo come in quell'istante - gli era improvvisamente apparsa come naturale, così tanto che il suo corpo aveva agito di conseguenza ignorando ogni tentativo di opporsi. Riuscendo addirittura ad eclissare lentamente il loro legame per sostituirlo con il desiderio.
    Herc era stato improvvisamente costretto a venire a patti con la dura realtà di quel momento, mettendo a nudo i suoi sentimenti più nascosti. Le parole "figlio" e "padre" sembravano ormai prive di valore, perché lui desiderava Chuck in una maniera così possessiva da sembrare a tratti morbosa.
    Era preoccupante, ma il muro che la sua mente aveva tentato di creare era stato infranto con una facilità disarmante. Esattamente come nel Drift: non poteva bloccare i suoi pensieri, Chuck li avrebbe visti in ogni caso.
    Si lasciò allora andare, permettendo al suo corpo - che ormai si muoveva guidato da chissà quale proposito - di fare quello che desiderava.
    « Dimmi che lo vuoi anche tu», mormorò il ragazzo poco dopo, alzandogli lentamente la maglietta.
    Sembrava quasi alla ricerca di conferme, come quando da bambino lo guardava con quei suoi occhioni azzurri, ansioso di sentirsi dire un: « Sei stato bravo».
    Certe cose non sarebbero mai cambiate, si disse Herc, sollevando le braccia per permettere al ragazzo di togliergli la maglia.
    « Sì», sussurrò piano, mettendosi nelle mani di Chuck.
    « Dillo ancora», rispose il ragazzo sorridendo e baciandogli poi spalla finalmente nuda.
    « Lo voglio anche io…», mormorò l’uomo, carezzandogli il fianco.
    « Ancora».
    Chuck scivolò verso il basso, inginocchiandosi tra le sue gambe baciandogli prime il petto e poi il ventre.
    « Chuck…», sospirò Herc, incapace di trattenere i brividi che le sue labbra gli stavano regalando ed irrigidendosi quando sentì le mani del ragazzo sui suoi pantaloni.
    « Papà», cinguettò Chuck al suo richiamo, piegando la bocca in un sorrisetto malizioso mentre gli apriva la zip. Lo osservò scostare senza vergogna la stoffa dei boxer, liberando poi il suo sesso semi eretto.
    Herc trattenne il respiro - era forse aspettativa? -, tenendo gli occhi fissi sulle iridi azzurre del ragazzo, cariche di desiderio e malizia che rispecchiavano il sorriso che piegava quella maledetta bocca.
    «Lo vuoi, papà?», soffiò, muovendo delicato la mano sulla base dell'erezione.
    «Chuck...», tremò, cercando istintivamente di trattenersi... di mantenere un pizzico di autorità.
    « Non vuoi vedere quanto è bravo il tuo ragazzo?», continuò Chuck divertito, ascoltandolo fremere ad ogni sua parola.
    Herc aprì bocca, pronto a ribattere, ma l'unico suono che uscì dalla sul bocca fu un gemito causato dalla lingua del ragazzo sul suo sesso.
    Aveva iniziato a giocare con il glande, muovendo al tempo stesso la mano sulla base.
    Per un istante chiuse gli occhi, godendosi quelle improvvise scariche di piacere, poi si costrinse a riaprirli per osservare in volto di Chuck.
    Il suo viso era diventato rosso - forse anche lui era imbarazzato nonostante tutto - e teneva la fronte corrucciata per la concentrazione mentre la sua lingua usciva dalle labbra socchiuse per percorrere le pelle tesa.
    Gli sfuggì un'imprecazione.
    " Errore", si rimproverò chiudendo di nuovo gli occhi, sentendosi incapace di trattenere un gemito più alto.
    Il volto di Chuck rimase impresso nella sua mente, costringendolo ad immaginare ogni suo movimento, dalle labbra che si stringevano sulla punta fino al profilo dei denti mentre prendeva lentamente in bocca l’asta.
    Ansimò, stringendo i pugni sulle lenzuola del letto, trattenendosi dall’andare incontro al ragazzo che muoveva la lingua contro la sua pelle tesa, succhiando e sfregando il suo sesso contro il palato.
    Era… maledettamente bravo.
    « D-dove cazzo… hai imparato?», domandò con voce roca, velata di una nota di gelosia.
    Poté chiaramente sentire Chuck sorridere contro la sua erezione e liberarla lentamente dalla calda prigione nella quale era stato intrappolato.
    « Dote di famiglia?», ribatté, spostando le dita sui testicoli, « Oppure sono semplicemente bravo, qui posso fare quel che voglio papà», concluse, soffiando quelle parole con un vago tono malinconico.
    « Che… significa?», chiese Herc, costringendosi ad aprire gli occhi.
    Che cosa voleva dire che lì poteva fare quello che voleva? Non aveva senso.
    Non ottenne risposta, se non l’ennesimo ghigno da parte di Chuck che tornò a succhiare con attenzione la sua erezione… e ad Herc bastò vedere la punta del suo sesso gonfiare leggermente la guancia del ragazzo per chiudere ancora gli occhi e buttarsi all’indietro.
    La sua schiena affondò nel morbido materasso alle sue spalle mentre dalle sue labbra, aperte, uscivano dei gemiti che gli facevano dimenticare ogni singolo dubbio o residuo di moralità.
    Era eccitante e sapeva che la cosa doveva preoccuparlo, tuttavia più il piacere cresceva, più la parola ‘sbagliato’ perdeva importanza.
    Si mise le mani in faccia, cercando di soffocare i suoi versi e di nascondere il bruciante imbarazzo che gli faceva pizzicare il viso.
    Chuck non si allontanò per commentare quella sua reazione, né sorrise come poco prima, continuò solamente a farlo impazzire, manipolando con le dita i suoi testicoli e succhiando il suo sesso come per volerlo prosciugare.
    Imprecò ancora, e le mani si spostarono dal suo volto per andare ad artigliare le lenzuola alla ricerca di un appiglio.
    « C-Chuck…», ansimò, puntando i piedi per terra e tremando a causa dei crampi che stavano artigliando le sue gambe.
    Era vicino. Fottutamente vicino.
    « C-cazzo», gemette ancora, inarcandosi all’esplodere dell’orgasmo, tuttavia, al contrario delle sue aspettative, il suo corpo non incontrò quello del figlio… sembrava scomparso.
    Riaprì gli occhi e fissò il soffitto della sua camera quasi senza vederlo realmente.
    Ansimò, alzando il capo, ma non vide nessuno.
    Era solo, concluse mentalmente.
    " È stato solo un sogno", si disse ancora mentre il suo corpo continuava a tremare per l'orgasmo.
    « Un sogno», ripeté cercando di dare alla sua voce più decisione, provando al tempo stesso di calmarsi. Lentamente iniziò a sentire la fastidiosa sensazione dei boxer umidi e sporchi attaccati alla pelle: era venuto nelle mutande per un semplice sogno.
    Arrossì leggermente e chiuse gli occhi.
    " Neanche fossi un ragazzino", si rimproverò nervosamente, cercando in ogni modo di ignorare il contenuto di quel sogno.
    Preferiva insultarsi e vergognarsi per essere venuto in quel modo piuttosto che farlo per ciò che aveva sognato. Ma ovviamente era impossibile.
    Tutto nella sua stanza gli ricordava 'chi' aveva sognato: dalle foto appese sul muro, ai vestiti che Chuck scaricava per terra al posto portarli alla lavanderia.
    Il nome di suo figlio si ripeté nella sua testa, facendogli venire quasi un capogiro e subito i suoi occhi corsero sul letto del ragazzo, trovandolo vuoto.
    Doveva essere fuori con Max e quella consapevolezza lo fece sospirare sollevato. Herc sapeva di dover fare i conti con quanto era accaduto, seppur in sogno… e l’idea che Chuck lo avesse osservato in quei momenti lo metteva a disagio.
    Poteva tagliare corto e dire: " È una sciocchezza", ma non ne era in grado.
    Quello che era successo non sembrava semplicemente frutto della sua immaginazione - quale persona sana di mente avrebbe immaginato una cosa simile? -, ma qualcosa di più reale.
    Scosse il capo nell'ennesimo e vano tentativo di andare avanti e dimenticare, e riuscì solamente ad alzarsi controvoglia dal letto, buttare i boxer sporchi nel cesto dei panni da lavare per poi infilarsi nella doccia.
    Si lavò quasi con frustrazione, come se volesse che la spugna portasse via con sé non solo il sudore o lo sperma ma anche il tocco di Chuck rimasto impresso sulla sua pelle.
    Gli aveva baciato il collo e le clavicole - le sfregò con forza -, lo aveva spogliato e gli aveva carezzato il petto prima di scendere verso il basso - continuò a sfregare con più decisione.
    Herc trattenne il respiro quando spinse la spugna tra le gambe, seguendo il cammino fatto dalle labbra di Chuck - si erano strette attorno al glande e, lentamente, avevano percorso l'intera asta.
    Gli sfuggì un mugugno, e risvegliandosi da quel limbo fatto di ricordi, lanciò via la spugna con fare nervoso ed afferrò un asciugamano prima di uscire dalla doccia. Poteva martoriare il suo corpo quanto desiderava, ma niente sarebbe riuscito ad cancellare quanto era accaduto... ed alla fine l'unico risultato di quella ‘punizione’ che si stava auto infliggendo erano e sarebbero degli irritanti segni rossi laddove aveva sfregato con più forza.
    « Maledetti geni ereditari», borbottò nervoso, incolpando la sua pelle delicata e cercando di non pensare al fatto che anche Chuck condivideva quello stesso tratto genetico, ma il suo viso arrossato tornò prepotentemente alla carica attraverso i suoi ricordi e cercò in ogni modo di scacciarlo.
    Afferrò una maglietta imprecando tra sé e sé, ed una volta vestito si trascinò mollemente fino alla mensa dove gli abitanti dello Shatterdome di Sydney avevano già iniziato a fare colazione.
    Prese un caffè, nella speranza di tirarsi su, e si sedette al tavolo.
    Avrebbe volentieri evitato Chuck, si disse fissando lo scuro liquido dentro il bicchiere, ma non era possibile.
    Era suo figlio ed era anche il suo co-pilota. Si trattava di un'impresa pressoché impossibile che, come era ovvio, fallì sin da subito.
    « Ehi vecchio, dormito male?», scherzò Chuck, dinnanzi all'espressione stravolta dell'uomo.
    « Sta zitto, Chuck», borbottò, senza neanche riprenderlo per averlo chiamato 'vecchio'.
    La sua mente era ancora sconvolta da quel 'sogno' e dalle forti emozioni che aveva provato, e non sapeva che spiegazione darsi.
    Lui aveva provato in ogni modo ad opporsi in quel sogno, eppure il suo corpo aveva fatto l’esatto contrario, assecondando i desideri di Chuck… era come se fosse il ragazzo ad avere il controllo di tutto.
    Quella conclusione lo fece quasi sussultare, riportando alla mente il termine di “Ghost Drifting”. Si trattava di un avvenimento raro tra i piloti di Jaegers, una sorta di conseguenza postuma della stretta di mano neurale, durante la quale il collegamento - seppur differente - continuava a persistere anche una volta disconnessi dall'hardware.
    Aveva letto più di un articolo su quell'argomento ed in quell'istante gli tornava in mente una frase detta dalla dottoressa Lightcap: " I piloti potrebbero addirittura condividere i propri sogni".
    Herc chiuse gli occhi, coprendosi il volto con le mani.
    Quel sogno non gli apparteneva, ne era ormai certo. Ma... quello che aveva provato?
    Erano delle conseguenze o erano dei sentimenti che appartenevano a lui?
    E Chuck... perché sognava quelle cose? Con suo padre poi. Era assurdo.
    « Ehi? Non voglio combattere con un fottutissimo zombie! Datti una sveglia, vecchio!», lo riprese Chuck, celando a malapena la propria preoccupazione.
    « Non. Chiamarmi. In. Quel. Modo», pronunciò Herc nervoso lanciandogli un'occhiataccia che fece visibilmente rilassare il ragazzo - il suo viso sembrava dire: " Questa sì che è una reazione degna di mio padre".
    « Costringimi», ribatté poi con un leggero ghigno che fece tremare l'uomo al ricordo - ancora nitido - di quello stesso scambio di parole che aveva fatto degenerare le cose nel 'sogno'.
    Aprì e rinchiuse la bocca più volte nel tentativo di trovare una risposta ma non riuscì a sceglierne nessuna adatta a quella situazione.
    « Ci vediamo nel Drift, vecchio», riprese il ragazzo facendogli l’occhiolino ed iniziando ad allontanarsi, « andiamo Max!», ed il cane ubbidiente lo seguì lasciando solo Herc.
    Già. Il Drift.
    Non gli bastava il problema del Ghost Drifting che se ne presentava uno nuovo.
    Chuck avrebbe visto e scoperto quello che avevano... condiviso, seppur in sogno, sentendo poi i suoi pensieri e dubbi.
    Non poteva non preoccuparsi ma la verità era che non sapeva cosa dovesse angustiarlo maggiormente.
    Il fatto che fosse un sogno di Chuck e che quindi suo figlio lo... beh, desiderasse in quel modo, oppure il fatto che lui stesso aveva scoperto di provare qualcosa di simile?
    " Entrambe le cose", si disse, e giunto a quel punto non sapeva esattamente con che coraggio affrontare il Drift.
    Sospirò bevendo il caffè, ormai freddo, tutto d’un sorso.
    Solo una cosa era ironicamente positiva in quella situazione, perché quella scoperta gli aveva fatto comprendere il motivo di certi atteggiamenti di Chuck e di altri pensieri che aveva colto proprio nel Drift.
    Aveva infatti più volte scorto non poca gelosia che era stata collegata al fatto che era suo figlio, ed era ovvio che fosse geloso del padre anche se cercava di non ammetterlo… gelosia che in quel momento stava assumendo un’altra sfumatura non del tutto gradita.
    Come aveva fatto a non rendersene conto prima?
    Si diede più volte dello stupido, ma neanche quegli insulti servirono ad aiutarlo.
    Niente lo avrebbe aiutato in quella situazione.
    Certo, poteva sempre chiedere al Marshall di cambiare ‘le coppie’ ma era ben conscio che di quei tempi non era semplice trovare dei piloti ancora disponibili e capaci.
    Suo malgrado Chuck era il migliore, non solo per il loro livello di compatibilità nel Drift ma anche per le sue abilità.
    “ È mio figlio”, dichiarò tra sé e sé senza nascondere un certo orgoglio. Era ovvio che fosse il migliore visto che per lui era stato più un ‘soldato’ che un padre - se ne era reso conto durante il loro primo Drift.
    Forse si trattava proprio di quello visto che per Chuck non era mai stato una vera e propria figura paterna, oppure - come per il Ghost Drifting - si trattava di una conseguenza del Drift… ma nessuna di quelle ipotesi sembrava avere realmente senso.
    Le cose sarebbero presto andate a rotoli, per quel motivo Herc era certo di dover riuscire ad affrontare suo figlio per evitare che accadesse qualcosa.
    Si concesse l’ennesimo sospiro, e cercando di tenere ben salda quella decisione si allontanò dalla mensa per affrontare quell’intensa giornata d’addestramento e simulazioni. Nella speranza che nessun maledetto Kaiju avesse l’intenzione di attaccare proprio quel giorno - aveva bisogno di un po' di tempo prima di affrontare Chuck nel Drift.
    Ovviamente le sue speranza andarono ad infrangersi fin troppo velocemente quando dal LOCCENT arrivò la comunicazione che un Kaiju - un Categoria III, nome in codice Hound - era appena uscito dalla Breccia per dirigersi verso Auckland.
    Come un automa si preparò per l'emergenza e raggiunse Chuck che lo attendeva pronto per partire.
    « Ti sei ripreso, vecchio?», domandò divertito.
    « Non preoccuparti, il tuo vecchio è ancora abbastanza forte per evitare che il Kaiju cattivo ti prenda a calci in culo», ribatté, sperando che la sua falsa sicurezza potesse trasmettersi anche nel Drift.
    Chuck ridacchiò ma non rispose, preferendo invece prendere posizione insieme ad Herc in attesa del drop.
    « Rilascio per drop», annunciò Herc e qualche secondo dopo la carlinga venne rilasciata per unirsi al corpo di Striker. L’allineamento andò come al solito alla perfezione.
    « Stretta di mano neurale tra dieci secondi. Dieci... nove... otto...», il tecnico iniziò il conto alla rovescia e da li a poco meno otto secondi Chuck sarebbe stato nella sua testa.
    Chiuse gli occhi.
    « Tutto bene, vecchio?», lo richiamò il ragazzo.
    « Pensa a concentrarti», rispose secco.
    « Tre. Due. Uno. Stretta di mano neurale attivata», ma Herc quella voce quasi non la sentì.
    La sua mentre era già altrove.
    Le missioni con l’esercito - c’era sempre una guerra a separarlo dalla sua famiglia.
    Il momento in cui Angela gli aveva messo in braccio il piccolo Chuck. I suoi primi passi e le parole - la vocina che ripeteva insistentemente: « Papà! Papà guarda! Guarda!».
    La volta che lo aveva portato a vedere la sua prima partita di football.
    Poi il K-Day e quando aveva scelto di salvare lui al posto di Angela.
    La rabbia negli sguardi di Chuck, il risentimento… fino ad arrivare al silenzioso perdono raggiunto grazie ai loro Drift.
    E da lì fino a quella notte.
    Il sogno di Chuck che aveva… spiato?
    Si sentì arrossire e riaprì gli occhi giusto per sentire il tecnico annunciare il successo della stretta di mano neurale.
    Lanciò un’occhiata a Chuck ma questo lo ignorò per iniziare a calibrare i due emisferi.
    « Emisfero sinistro sta calibrando», annunciò alzando un braccio lentamente.
    « Emisfero destro sta calibrando», rispose Herc imitandolo mentre con loro si muoveva anche il Jaeger.
    « Calibrazione riuscita», annunciò il tecnico mentre metteva in comunicazione il Marshall, il quale diede loro le ultime direttive che si rivelarono essere le solite cose: proteggere Auckland, limitare i danni ed uccidere il Kaiju.
    Entrambi i piloti assentirono poi, scambiandosi un’ultima occhiata, iniziarono a muoversi per dare il via alla missione. Non avevano bisogno di parlare per avvertire la tensione, erano entrambi l’uno nella testa dell’altro anche se cercavano di ignorarlo e di concentrarsi sulla missione.
    Perché un soldato distratto equivaleva ad un soldato morto.
    La battaglia si rivelò dura come tutte le altre che l’avevano preceduta e, fortunatamente, si concluse anche quella con l’ennesima uccisione per Striker Eureka.
    Solitamente, Chuck si sarebbe permesso di festeggiare - stavano raggiungendo un vero e proprio record con i Kaiju che stavano sterminando - ma, silenzioso, abbandonò il Jaeger una volta tornati alla base.
    Herc, ovviamente, non aveva bisogno di sapere che gli stesse accadendo e, dopo aver fatto rapporto, andò a cercarlo.
    Rimandare non sarebbe servito a niente. Suo figlio sapeva quello che era successo. Lui stesso ne era a conoscenza.
    O affrontavano quella situazione o affondavano con essa… e un Hansen non affonda mai.
    Trovò il ragazzo nella Kwoon Combat Room in compagnia di Max che, pigro come sempre, se ne stava accoccolato tra le gambe del suo padrone.
    « Chuck», lo chiamò per attirare la sua attenzione.
    « Che c’è?», sbottò.
    « Dobbiamo parlare», mormorò, osando sedersi accanto al ragazzo.
    « Non c’è niente da dire, papà», rispose Chuck, calcando sulla parola ‘papà’, « quello che abbiamo visto ha parlato già abbastanza per entrambi».
    Herc sospirò, comprendendo la rabbia del suo ragazzo.
    Il Drift li metteva in quella situazione. Non esistevano segreti quando ci si interconnetteva.
    Quando pilotava Lucky Seven con Scott, suo fratello, aveva più volte dovuto fare i conti con delle cose riguardanti il suo co-pilota che non avrebbe mai voluto sapere… e quella situazione non era poi così diversa.
    « Si tratta del Ghost Drifting», esordì anche se sapeva di non aver bisogno di dirlo.
    « Si tratta di sapere che intenzioni hai ora. Devi dirmelo perché non l’ho capito», ribatté Chuck, « vuoi fare finta di niente? Cambiare pilota? O… provarci?», concluse con un sussurro, e ancora una volta Herc vide nei suoi occhi la stessa aspettativa di quando era un bambino, quella che aveva intravisto dopo tanto tempo durante il loro sogno.
    Il Drift gli aveva mostrato quanto Chuck fosse confuso per via dei suoi desideri, dei sogni e per tutto quello che gli stava accadendo. Aveva visto i suoi tentativi di ignorare quello che provava, di essere freddo e distante - cose che Herc aveva mal interpretato le prime volte -, ma alla fine aveva fallito.
    Aveva accettato quell'attrazione e i sogni erano diventati la sua via di fuga... e suo malgrado anche Herc sentiva di essere nella stessa situazione.
    Era incapace di rifiutare quella proposta ed era ben conscio che con l'andare dei mesi - se quella storia non fosse venuta fuori quel giorno, ovviamente - si sarebbero ugualmente ritrovati nella stessa situazione.
    Le cose sarebbero andate diversamente? Forse sarebbero stati più preparati o frustrati, ma non potevano saperlo. Di conseguenza poteva solamente accettare quello che stava accadendo, perché era certo di non essere in grado né di ignorare i suoi sentimenti né di poter cambiare pilota - non avrebbe permesso a nessun altro di entrargli nella mente, perché avrebbe messo nei guai sia lui che Chuck.
    « Possiamo provarci», rispose piano, spingendosi verso di lui per abbracciarlo e fargli sentire la sua presenza - da bambino era l'unico modo per calmarlo e rassicurarlo.
    Lo sentì irrigidirsi per quel gesto ma non si allontanò.
    « Sempre meglio che sognarle certe cose, no?», aggiunse poi cercando di alleggerire il peso della situazione.
    « Sono costretto a darti ragione... ma smettila di abbracciarmi. Non siamo mica due checche, vecchio», ghignò Chuck piazzandogli le mani sulle spalle, come per allontanarlo, e senza nascondere un pizzico di soddisfazione nella sua voce.
    « Non chiamarmi in quel modo, Charles», ribatté Herc sciogliendo l’abbraccio, stupendosi quando le labbra del ragazzo si avvicinarono alle sue.
    « Costringimi, vecchio».
    Sorrise allungando la mano per posarla sulla nuca - i capelli erano esattamente come quelli che aveva sentito nel sogno.
    « Non sfidarmi, Chuck», sussurrò con voce bassa prima di baciarlo e mandare per l’ennesima volta al diavolo tutto quello che lo circondava.



  5. .
    Titolo: My Hero
    Fandom: The Unit
    Personaggi: Jenny Gerhardt, Mack Gerhardt
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Verde
    Avvertimenti: Flashfic
    Conteggio Parole: 300
    Note: 1. Un classico delle scuole americane mostrate nei telefilm chiede ai bambini di dire chi è il proprio eroe, e Jenny non sa come fare a scriverlo visto che le è vietato parlare del lavoro ‘reale’ del padre ù_ù
    2. Come sempre la dedico al mio amore<3
    3. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD




    « Papà, come posso scrivere che sei il mio eroe nel tema?»
    Mack, stupito, si voltò verso Jenny - la minore delle sue figlie - che, seduta sul tavolo, lo fissava in attesa di una risposta.
    « Sono il tuo eroe?», domandò in risposta, sedendosi davanti a lei.
    « Certo che lo sei! Sei il mio papà», rispose accorata la bambina.
    « Allora scrivi che lo sono, no?»
    « Ma la mamma dice che non devo parlare del tuo lavoro», si imbronciò Jenny.
    Non sapeva cosa scrivere nel suo tema e la cosa la stava facendo impazzire.
    Sapeva che suo padre faceva un lavoro molto pericoloso - aveva sentito lui e sua madre litigare più volte, ma non aveva mai detto niente -, sapeva che quando non era a casa con lei era ‘fuori a combattere i cattivi’ e che soprattutto non doveva parlarne con nessuno.
    « Solo per il lavoro sono il tuo eroe?», ribatté Mack con un mezzo sorriso.
    « No! Sei il migliore papà del mondo! E anche se sei spesso lontano mi fai tanti regali!»
    L’uomo ridacchiò.
    « Quindi lo sono per i regali?»
    « Noooo!», Jenny scosse il capo, « Lo sei e basta!»
    « Allora scrivi questo, piccola», rispose l’uomo, carezzandole il capo e baciandole la fronte, « Che sono un bravo padre e che ti faccio tanti i regali. Inoltre quando posso ti porto al campeggio e uccido i mostri sotto il tuo letto»
    La bambina ridacchiò a sua volta - tenendo per sé il fatto che ormai non credeva più ai mostri ma che continuava a fingere solo per passare del tempo in più con suo padre.
    « Sai papà…», esordì allungando le braccia per poterlo abbracciare.
    « Mh?», Mack la strinse a sé.
    « Sei il mio eroe», mormorò piano « non importa quel che scrivo. Tu sei sempre il mio eroe e il miglior papà del mondo».


  6. .
    Titolo: At least the cake was good
    Fandom: The Unit
    Personaggi: Charles Gray, Hector Williams
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Verde
    Avvertimenti: Oneshot, Slash
    Conteggio Parole: 565
    Note: 1. Ho iniziato a vedere “The Unit” solo per il personaggio interpretato da Max Martini e mi sono ritrovata a shippare questi due çAç<3
    2. Ambientata dopo la quindicesima puntata della seconda stagione: “Attacco all’Onu”.
    3. Come sempre la dedico al mio amore<3
    4. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD





    Charles ed Hector avevano abbandonato quasi subito i loro compagni per raggiungere l'albergo e permettere al secondo di lavarsi e cambiarsi.
    Era stata una giornata pesante, e anche se non era la prima - e sicuramente neanche l'ultima -, entrambi si sentivano stremati.
    I loro nervi erano stati messi a dura prova, e Williams non poté non emettere un sospiro di sollievo quando il suo sedere affondò nel morbido materasso del letto.
    Nonostante fosse passato già del tempo, tutti i suoi muscoli tremavano ancora per lo sforzo sostenuto, e concedendosi quel breve momento di pausa lasciò che la sua mente pregustasse l'idea di una lunga notte di riposo.
    Tuttavia, non poté non rivolgere un'occhiata preoccupata a Gray che, silenzioso, aveva iniziato a cercare qualcosa nella sacca.
    « Charles?», lo chiamò.
    « Dammi un momento, Hector. Cerco qualcosa di pulito da farti mettere», ribatté l'altro, continuando a frugare nella sacca senza però tirare fuori niente.
    Hector non aveva quasi bisogno di seguirne i movimenti per sapere come si sentisse. Lo conosceva fin troppo bene.
    Charles era agitato, e gli tremavano addirittura le mani. Per quanto fossero entrambi addestrati, una volta chiusa quella porta Gray non era stato in grado di continuare a mantenere la calma.
    Doveva semplicemente sfogare la tensione accumulata durante quella giornata.
    « Ehi», lo riprese Hector, « guarda che sto bene».
    Gray strinse i pugni, prendendo dei profondi respiri nel tentativo di recuperare il controllo.
    « Poteva andare male e...»
    « Ed invece è andata bene», tagliò corto l'altro, « non lasciare spazio ad altre ipotesi. Sono qui e tu hai fatto un buon lavoro»
    Charles non rispose, continuando a tenere in capo basso.
    « Dai... vieni qui», lo incoraggiò, senza però ottenere la reazione desiderata.
    Il suo compagno continuava a fissare la sacca, prendendo dei profondi respiri che si stavano rivelando del tutto inutili.
    « Sergente Gray, ti ordino di venire qui», esclamò poco dopo Hector, e Charles - stupito dal tono utilizzato - non poté far altro che ubbidire avvicinandosi lentamente verso il compagno.
    Lo osservò con attenzione. Williams era ancora sporco di torta oltre che visibilmente stanco, ma stava bene.
    Era vivo e non lo aveva perso, si disse Charles cercando di trovare in quella sicurezza il suo controllo, lasciando poi che il suo compagno lo abbracciasse e tirasse seduto sulle sue ginocchia.
    « Smettila di fare la femminuccia», scherzò Williams stringendo le mani sui fianchi di Gray per non farlo scappare, riuscendo però solo a farlo sbuffare.
    « Non sei simpatico», sbottò infatti, prendendogli il viso tra le mani e carezzandogli le guance con i pollici, « ho temuto di perderti», ammise poi con più delicatezza.
    « Anch'io», sussurrò Hector, « la prossima volta ricordami di non mettermi in situazioni simili»
    Charles sorrise, mostrandosi finalmente più calmo.
    « Mi ascolteresti?», domandò.
    « L'ho mai fatto?», ribatté ridacchiando Williams, rubando una risata anche anche al suo compagno che, facendo scivolare le mani dietro la nuca, lo attirò verso di sé per posare le labbra sulle sue.
    Erano salate per il sudore, ma anche dolci per la torta che gli era praticamente esplosa addosso - detonazione di poco conto in confronto a quella che ci sarebbe stata in caso di fallimento.
    Charles si sentì quasi inondare dalla positività - Hector era lì perché lui era riuscito a salvarlo, andava tutto bene -, e sorridendo si allontanò per puntare gli occhi su quelli del compagno.
    « Almeno... la torta era buona», concluse leccandosi le labbra.
    « Posso confermare», ribatté Hector divertito prima di reclamare un altro bacio da parte di Gray.



  7. .
    Titolo: Nobody is always strong
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Hercules Hansen, Chuck Hansen
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Verde
    Avvertimenti: Oneshot, Missing Moments
    Conteggio Parole: 540
    Note: 1. Tanto fluff da cariare i denti è3é/
    2. Diamo la colpa a Mack Gerhardt di The Unit (è un personaggio interpretato da Max Martini) che mi ha ispirato questa scena durante un dialogo con la figlia. Un pezzo del dialogo è riportato nella fic infatti ù_ù
    3. Come sempre la dedico al mio amore che sopporta i miei vaneggiamenti incestuosi<3
    4. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD




    Spense la televisione, incapace di osservare ancora i telegiornali che commentavano i vani tentativi di salvare San Francisco da quell'attacco che andava avanti ormai da giorni.
    Non erano notizie rassicuranti ed Herc, ad essere sincero, non sapeva cosa pensare o come agire.
    Ogni tentativo dell'esercito falliva sotto la forza e la furia di quell'essere emerso dall'oceano - Kaiju, lo chiamavano in quel modo -, e lui stesso iniziava a perdere le speranze e a sentirsi inutile nonostante fosse uno dei piloti migliori della RAAF.
    In tutta la storia dell'umanità non si era mai verificato un caso simile, e loro - a partire dall’esercito fino ad arrivare ai civili - non erano preparati ad affrontare quella minaccia.
    Si sentiva un incapace e… troppo ‘piccolo’ per proteggere le persone che amava.
    « Papà...», una vocina lo riscosse, e voltandosi incrociò gli occhi azzurri del figlio, semi nascosto dietro il bracciolo del divano.
    « Ehi Chuck...», si allungò verso di lui, stendendo le braccia per sollevarlo, facendolo sedere a cavalcioni sulle sue gambe, « Non dovresti essere a letto, ometto?»
    « Io… non riesco a dormire», rispose il bambino, appoggiando il capo sulla spalla del padre.
    La sua voce era stanca ed impastata dal sonno. C’era qualcosa che lo turbava ed Herc non faticava ad immaginare cosa fosse.
    Cosa poteva essere se non la minaccia di quel Kaiju a San Francisco?
    Ne parlavano tutte le televisioni e nelle scuole si facevano già le esercitazioni d’evacuazione.
    Quell’attacco, si chiese Herc, si trattava di un avvenimento isolato o era solo il primo di una serie?
    Sospirò, incapace di darsi una risposta.
    « La mamma?»
    « Dorme… posso restare qui, papà?», domandò Chuck, stringendo le mani sulla camicia dell’uomo come se quello potesse impedirgli di essere allontanato.
    « Certo che puoi restare piccolo mio», mormorò Herc carezzandogli i capelli e la schiena per farlo rilassare.
    Rimasero in silenzio per qualche momento, ascoltando i loro respiri ed i silenziosi pensieri che affollavano le loro menti.
    « Papà?», esordì Chuck d’un tratto.
    « Sì?»
    Chuck alzò il capo per guardarlo in viso ed Herc non aveva bisogno di sapere quali fossero i suoi pensieri.
    Era spaventato, e non poteva dargli torto. Lui stesso si sentiva impotente dinnanzi a quelle notizie.
    « Tu... sei sempre forte?», domandò il bambino.
    Herc gli donò un piccolo sorriso, abbracciandolo ancora e baciandogli la fronte.
    « Nessuno al mondo è sempre forte», rispose sincero.
    « Quindi...», continuò piano, stringendo ancora le mani sulla camicia. « è normale avere paura?»
    « Sì, ma tu non devi averne. Perché il papà ti proteggerà da tutto e da tutti, piccolo mio», gli promise posando la fronte su quella di Chuck per poterlo guardare negli occhi.
    « Anche dai Kaiju?»
    « Anche dai Kaiju», ripeté sorridendo, sentendo il piccolo corpicino del bambino rilassarsi contro il suo, « finché ci sarò io, tu non dovrai mai avere paura».
    Chuck, improvvisamente più calmo, sorrise - il suo volto parve quasi illuminarsi mentre si formavano delle adorabili fossette sulle guance - e scoccandogli un baciò lo strinse in un forte abbraccio.
    « Non ho più paura allora!», dichiarò.
    « Certo, sei un Hansen», ribatté l’uomo ricambiando la stretta.
    « Ti voglio bene, papà», mormorò poco dopo il bambino, chiudendo gli occhi.
    « Anche io Chuck. Anche io ti voglio bene», rispose Herc cullando il bambino che, abbandonando i suoi timori, si lasciò finalmente andare accogliendo il sonno protetto dalle braccia del padre.


  8. .
    Titolo: Proprietà del Genio Indiscusso del Basket Hanamichi Sakuragi
    Fandom: Slam Dunk
    Personaggi: Kaede Rukawa, Hanamichi Sakuragi
    Genere: Introspettivo, Romantico, Fluff
    Rating: Arancione
    Avvertimenti: Oneshot, Yaoi, What if? (E se…)
    Conteggio Parole: 1810
    Note: 1. Scritta per la community 1frase
    2. Adoro questi due ed è la prima volta che ci scrivo qualcosa di… serio?XD bahXD spero vi piaccia!
    3. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD


    TjKLonL



    #01 - Gelosia: « CHI VOLETE CHE VI TRAPANI? EH? EH? RAZZA DI OCHE FILATE VIA SE NON VOLETE SCHIATTARE! SCROFE!», era incredibile come la gelosia di Hanamichi fosse direttamente proporzionale alle oscenità che le fan del suo Kaede si ostinavano ad urlare.

    #02 - Lenzuola: Hanamichi aveva compreso che la sua relazione con Rukawa stava diventando un qualcosa di più importante quando, cambiando le lenzuola, aveva definito quel letto il loro letto.

    #03 - Caffè: Sakuragi aveva dovuto imparare a fare un ottimo caffè per evitare che Kaede la mattina si addormentasse sulla bici e si schiantasse su qualche cosa.

    #04 - Interrogatorio: C'era un qualcosa che Sakuragi non aveva calcolato e questa era la gelosia di Kaede, che lo sottoponeva quasi ad un interrogatorio al suo ritorno dopo un uscita con Mito e gli altri.

    #05 - Melodia: Quando Hanamichi arrivò all’appuntamento si trovò davanti Rukawa che dormiva tranquillo sul prato, con il walkman ancora acceso dal quale proveniva una bassa melodia: « Ma ti sembra il posto per dormire, stupida volpe?!»

    #06 - Lavoro: Per quanto fosse stancante, quando Hanamichi si metteva in testa un qualcosa riusciva ad ottenerela in un modo o nell'altro, e se voleva regalare un viaggio in America al suo compagno per il loro anniversario lo avrebbe fatto: anche a costo di spaccarsi la schiena con quel lavoro.

    #07 - Denti: « Ehi Hana! Che cos'hai sul collo? MA QUELLO È UN SUCCHIOTTO! Hai finalmente inzuppato il biscotto?», e tra le risate e le domande inopportune dei suoi 'amici', Sakuragi si ritrovò a maledire Kaede e la sua mania di usare i denti.

    #08 - Libro: « Kaede? Kaede! Kae! Kitsuneeeee! Daiiii!», e alla fine Rukawa non poté far altro che chiudere il libro, seccato - ma anche un poco intenerito - dalle continue ricerche d'attenzioni nel suo compagno.

    #09 - Chiave: Così come Hanamichi si era reso conto della mutazione del loro rapporto, anche Kaede un giorno comprese che le cose stavano cambiando: quando quell'idiota del suo ragazzo - sì, stava riuscendo a chiamarlo in quel modo - gli consegnò una copia delle chiavi del suo appartamento.

    #10 - Sguardo: Quando Rukawa si rese conto dei suoi sentimenti per Sakuragi iniziò ad ignorarlo nel tentativo di proteggersi da una sicura delusione, tuttavia non aveva fatto i conti con la testardaggine di quell'idiota che pur di ottenere un gesto, o anche solo uno sguardo, era disposto a tutto.

    #11 - Biancheria: « Proprietà del Genio Indiscusso del Basket Hanamichi Sakuragi», il suddetto genio poteva dirsi davvero fortunato che Rukawa non avesse ancora notato la scritta che ormai appariva su tutti i suoi capi di biancheria. .. perché le cose potevano finire molto male.

    #12 - Massaggio: Hanamichi aveva appena finito la riabilitazione e Rukawa era stato categorico: nessun’altro avrebbe più toccato la schiena del suo compagno da quel momento in poi, sarebbe stato lui a fargli tutti i massaggi… anche a costo di dover litigare, cosa che non sarebbe mai venuta a mancare..

    #13 - Sete: Per Hanamichi non c'era niente di meglio di un Pocari Sweet per placare la sete e reintegrare i sali minerali dopo un'estenuante sessione di allenamento... soprattutto da quando poteva prenderla direttamente dalle labbra di qualcuno.

    #14 - Regalo: Sakuragi aveva lavorato tantissimo per fargli quel regalo per il loro anniversario ed era stato ricompensato nel modo più bello del mondo: con un sorriso di Kaede - non un sorriso di sfida o di scherno, ma un vero sorriso rivolto solo ed esclusivamente a lui.

    #15 - Fotografia: Rukawa non era un tipo da foto, tuttavia ce ne era una che custodiva gelosamente: l'aveva fatta Ayako e ritraeva lui ed Hanamichi addormentati l'uno sull'altro al termine di una partita.

    #16 - Istante: Minami aveva colpito Rukawa e a Sakuragi era bastato quell'istante per capire quanto amasse Kaede.

    #17 - Cane: « Odio i cani», aveva affermato una volta Rukawa, ritrovandosi poi ad avere a che fare con un Hanamichi che, giusto per infastidirlo, fingeva di essere un cane con tanto di "bau" e leccate sulla faccia.

    #18 - Rossetto: Presentare Kaede a sua madre era stata una vera e propria impresa, ma mai quanto smettere di ridere davanti ai segni di rossetto sul viso del suo compagno sopravvissuto agli slanci d'affetto della donna.

    #19 - Orologio: Sakuragi aveva non aveva faticato ad abituarsi ai ritmi di Kaede visto che il suo orologio sembrava puntare sempre su due orari ben distinti: ora del basket e ora del riposino.

    #20 - Computer: Era raro vederli studiare - la bocciatura significava rinunciare al basket e non potevano permetterselo -, ciò che però non sarebbe mai cambiato era il vedere crollare Rukawa sulla tastiera del computer e la successiva risata di Hanamichi.

    #21 - Salato: Hanamichi era abituato a leccarsi le dita sporche di sale dopo aver mangiato delle patatine o degli arachidi… sfortunatamente - o fortunatamente per lui - Rukawa non lo era.

    #22 - Pelle: Rukawa non gradiva particolarmente i dolci, ma al contrario amava mordere la pelle color cioccolata di Hanamichi e lasciare dei segni del suo passaggio.

    #23 - Dolce: Kaede, sin da quando aveva memoria, aveva sempre ricevuto tonnellate di dolci per San Valentino - che buttava via puntualmente - né aveva mai avuto il desiderio di ricambiare quel gesto; quell’anno tuttavia trovò quasi naturale fare un piccolo e dolce pensiero ad Hanamichi che, al contrario suo, non aveva mai ricevuto alcun dono per quella stupida festa.

    #24 - Maglia: Come uno zombie Kaede si alzò dal suo letto, afferrò la prima maglietta che gli capitava sotto mano ed entrò nel bagno; solo quando si specchiò notò di aver indossato la maglia numero 10 dello Shohoku: « Idiota», borbottò: Hanamichi aveva dimenticato ancora una volta la maglietta a casa sua.

    #25 - Gelo: Sakuragi era abituato agli sguardi indifferenti che Rukawa rivolgeva a tutti quelli che incrociava, ma non a quelli inspiegabilmente gelidi che aveva iniziato a rivolgergli ogni qualvolta che lo vedeva vicino ad Haruko… che fosse gelosia?!

    #26 - Pallone: Hanamichi non avrebbe mai smesso di ringraziare il basket per avergli fatto conoscere Kaede… forse però doveva ringraziare anche Haruko, ma vista la gelosia di Rukawa non ne era poi così convinto.

    #27 - Alba: Rukawa usciva sempre all’alba per andare a correre, ed Hanamichi - che aveva iniziato a seguirlo - non poteva non lamentarsi e chiedersi, ad alta voce ovviamente, chi glielo avesse fatto fare di alzarsi a quell’ora.

    #28 - Oscurità: Hanamichi nel tentativo di baciarlo al buio aveva beccato nell’ordine un occhio, il naso, il mento e la guancia, tentativi prontamente commentati da Rukawa che tuttavia non trovò più niente da dire quando, al primo colpo, il suo compagno gli infilò poco gentilmente una mano tra le gambe.

    #29 - Lacrime: Era stato Mito a raccontare alla squadra la storia di come era morto il padre di Hanamichi e il peso che il ragazzo portava sulle spalle, e Kaede aveva dato fondo a tutte le sue forze per allontanarsi dal resto del gruppo e non mostrare quelle maledette lacrime che volevano abbandonare i suoi occhi… non si sarebbe mai aspettato che uno come Sakuragi, solare e casinista, potesse aver sofferto in quel modo.

    #30 - Tatuaggio: Oltre la questione ‘massaggi’, Kaede era stato categorico anche su un altro argomento: Hanamichi non si sarebbe mai dovuto fare un tatuaggio - men che meno uno stupido come quello di una volpe stilizzata.

    #31 - Occhiali: Rukawa non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma Hanamichi era davvero sexy con gli occhiali da lettura.

    #32 - Latte: Hanamichi stava controllando la lista della spesa - mancava ancora il latte - quando Kaede, addormentato, andò a schiantarsi con il carrello su uno scaffale.

    #33 - Taglio: A Rukawa era venuto un colpo quando aveva visto Sakuragi con i capelli rasati, soprattutto quando si era scoperto a pensare che fosse un gran figo.

    #34 - Anniversario: « Buon anniversario, stupida volpe!», aveva dichiarato Hanamichi porgendogli due biglietti aerei per l’America.

    #35 - Quadro: « Ma che bel quadretto», ridacchiò Hanamichi osservando se stesso e Rukawa addormentati l’uno sull’altro - avevano dato fondo a tutte le loro energie durante quella partita -, immortalati dalla macchina fotografica di Ayako.

    #36 - Ripetere: « FILATE VIA, SCROFE!», era bastato quell’urlo animalesco, accompagnato da uno sguardo assassino, a far scappare le fans di Rukawa: Hanamichi non era uno che amava ripetersi, soprattutto in quei casi.

    #37 - Sfumature: Kaede non era un tipo particolarmente romantico ma si dimostrò più volte pronto a tutto pur di scoprire tutte le sfumature caratteriali di quell’idiota che gli era entrato nel cuore.

    #38 - Significati: Gli altri non potevano saperlo, ma ormai i loro insulti avevano tutto un altro significato… e la cosa li faceva pure sentire scemi visto che per dirsi “Ti amo” dovevano per forza ricorrere a definizioni come “Stupida Volpe” e “Idiota dalla testa rossa”.

    #39 - Ossessione: Si svegliò di soprassalto, sudato e particolarmente eccitato e l’unica cosa che riuscì a borbottare prima di infilarsi nella doccia fu un: « Maledetta volpe, pure nei miei sogni devi ossessionarmi!»

    #40 - Sabbia: Rukawa non si ricordava neanche più per quale motivo avessero litigato, sapeva solo che si erano azzuffati sulla spiaggia fino a far finire la schermaglia un con lungo bacio riappacificatore ed un lamento da parte di Hanamichi: « Mai più, volpe. Mai più sulla spiaggia! Ho la sabbia in posti che non credevo esistessero!»

    #41 - Aereo: « Lo stai facendo per Kaede. Lo stai facendo per Kaede», si ripeteva Hanamichi ad occhi chiusi, decidendo tra sé e sé che la prossima volta avrebbe preso una nave e non quel maledetto aggeggio volante.

    #42 - Viaggio: Il viaggio in aereo per l’America divenne improvvisamente più piacevole per Hanamichi quando Rukawa - conscio del suo disagio - divise con lui l’auricolare del suo walkman posando la testa sulla sua spalla e Sakuragi, sorridendo per quel gesto così gentile, posò a sua volta il capo su quello del compagno per lasciarsi avvolgere dal profumo della sua volpe e dalla musica.

    #43 - Bosco: Quando Miyagi - il nuovo capitano - aveva deciso di fare la preparazione atletica alle terme, vicino ad un bosco, la prima cosa che Sakuragi e Rukawa si sentirono dire fu un malizioso: « Non approfittatene per nascondervi! Siamo qui per allenarci! Vero, Ayakuccia?»

    #44 - Bracciale: Per quanto Hanamichi e Kaede fossero riservati riguardo alla loro relazione, a tutti era saltato all’occhio il bracciale, identico, che entrambi avevano iniziato ad indossare.

    #45 - Sesso: Quando la loro relazione era venuta a galla nessuno nella squadra li aveva allontanati o trattati male, al contrario: Mitsui e Miyagi avevano invece scherzato chiedendo se avessero mai fatto sesso sul pavimento della palestra, ricevendo un pugno sul capo da un imbarazzatissimo Gorilla - la risposta era comunque no: non avevano mai fatto sesso sul pavimento della palestra… ma negli spogliatoi sì.

    #46 - Polvere: Quando Kaede salì nella soffitta trovò Hanamichi se la stava prendendo con lo straccio che stava utilizzando per spolverare ed una presunta allergia che gli aveva fatto diventare il naso e gli occhi rossi quasi quanto i suoi capelli.

    #47 - Penna: La testa di Kaede ciondolava pericolosamente ed Hanamichi, improvvisando un arco con una penna ed un elastico la utilizzò come bersaglio - inutile dire che alla decima pallina di carta incastrata tra i suoi capelli, Rukawa utilizzò la sua di penna per tentare il “lancio del giavellotto” sull’altro atleta.

    #48 - Lingua: Rukawa era noto per la sua lingua affilata ma solo Hanamichi aveva avuto l’onore, e soprattutto il piacere, di conoscere tutte le altre doti di quella maledetta lingua.

    #49 - Note: Hanamichi si stava quasi per addormentare accompagnato dalle dolci note delle canzoni del walkman di Kaede, ma quando un cantante iniziò improvvisamente a urlargli nelle orecchie non riuscì a non balzare quasi in piedi facendo spaventare anche gli altri passeggeri di quel volo.

    #50 - Manette: « K-Kaede? Ehi? Kaede? KAEDE? MALEDETTA KITSUNE NON TI SARAI MICA ADDORMENTATA? TOGLIMI QUESTE DANNATISSIME MANETTE!»


  9. .
    Titolo: I need a miracle to make it through
    Titolo del Capitolo: 1. Miracle
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Herc Hansen, Tendo Choi, Chuck Hansen
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Giallo
    Avvertimenti: What if? (E se…)
    Conteggio Parole: 1400
    Note: 1. Chuck non muore. Tutto qui ù_ù Hansencest feels *muore d’amore*
    2. Ispirata a quest’immagine di kaijusizefeels.
    3. L’immagine del banner appartiene a rippar.
    3. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD


    CG3HPJe



    Aveva abbandonato presto i festeggiamenti nello Shatterdome, incapace di gioire per davvero dinnanzi a quella sofferta vittoria.
    " Un padre non dovrebbe mai seppellire il proprio figlio", si era detto mentre il segnale di Striker Eureka spariva dagli schermi durante la battaglia appena conclusa.
    Aveva vacillato ma, assumendo il ruolo di Marshal, era rimasto in piedi fino alla fine per guidare l'ultima speranza della terra. Tutti avevano tenuto duro, trattenendo il fiato fino a quando la Breccia era stata chiusa per sempre.
    Avevano vinto e l'orologio di guerra era stato azzerato per l'ultima volta, e mentre lo Shatterdome si riempiva di applausi e festeggiamenti, Hercules Hansen si era invece accucciato per terra per parlare e coccolare Max.
    Aveva tenuto la mente occupata fino a quell'istante - teso all’inverosimile a causa dell’incerto esito della missione -, ma era tutto finito.
    La popolazione mondiale non avrebbe più dormito con un occhio aperto per timore di un nuovo attacco kaiju… ma lui al contrario non sentiva quella gioia, perché ogni singola cosa che contava per davvero nella sua vita ormai non esisteva più.
    Tentò di pensare a qualcos’altro, di concentrarsi su qualsiasi cosa - futile o meno -, o addirittura cercò di tenere la mente vuota.
    Ma non poteva. Non ne era in grado.
    La parola 'morte' si ripeteva nella sua testa, costringendolo a piegare le spalle sotto il suo peso.
    “ Era morto”, sussurrava quella voce.
    “ Lo so, ma non voglio dirlo”, ribatteva Herc stringendo le labbra.
    Doveva esserci lui su quello Jaeger. Se non fosse stato per il suo braccio forse tutto sarebbe andato diversamente.
    Forse non sarebbero dovuti ricorrere alla detonazione del loro carico esplosivo. Forse sarebbero riusciti a spingere la bomba nella Breccia senza alcuna perdita.
    Forse... forse doveva semplicemente accettarlo perché poteva farsi anche un migliaio di ipotesi, ma queste non sarebbero mai state in grado di cambiare quanto era accaduto.
    Lui era vivo e dalla morte non era possibile tornare indietro.
    Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra.
    « Mi dispiace», mormorò piano, grattando Max dietro le orecchie.
    Chiedeva scusa al cane per non aver protetto il suo padroncino, per averlo mandato a combattere in una missione suicida.
    La chiedeva allo stesso Chuck. Per non averlo fermato, per non aver preso il suo posto e per non essere stato in grado di salvare anche Angela… per averlo cresciuto da solo e senza una madre.
    Per non essere stato un buon padre.
    Soprattutto, chiedeva perdono alla sua scomparsa moglie... per tantissime cose. Troppe per un solo uomo, e anche se Chuck ‘sapeva’ quanto fosse grande il suo dispiacere, Herc non poteva fare a meno di mormorare quelle scuse...
    Un rumore insistente tuttavia gli fece sollevare il capo verso le apparecchiature che ancora segnalavano le due capsule di salvataggio della signorina Mori e Becket che venivano recuperate insieme ai loro coraggiosi passeggeri.
    Si avvicinò al macchinario che continuava ad emettere quel rumore e cercò di comprendere che cosa stesse accadendo.
    Almeno si sarebbe distratto, si disse decretando poi un: “ Non si tratta di un allarme kaiju”, tra sé e sé.
    Osservò la schermata fino a scorgere la causa di quell'insistente richiamo. Un qualcosa lampeggiava al lato del quadrante, e spostando il campo visivo della mappa riconobbe la natura di quella segnalazione.
    Rimase per qualche attimo interdetto - era solo un suo desiderio o era la verità? - poi, a gran voce richiamò Choi, unico in grado di utilizzare al meglio quella tecnologia e di dirgli se la sua era solo un'illusione.
    « Tendo! C'é qualcosa!»
    L'uomo, bloccato nei suoi festeggiamenti, lo raggiunse preoccupato chiedendogli che cosa fosse accaduto - la Breccia era stata chiusa, che altro doveva esserci?
    « Lo... vedi anche tu?», ribatté Herc indicando la schermata senza riuscire a mascherare una nota di incertezza.
    « Buon Dio!», esclamò subito dopo Tendo dandogli indirettamente una risposta, prendendo poi posto sulla sua sedia. « È una capsula di sicurezza. Striker Eureka», dichiarò dopo aver individuato il numero di serie e cercando al tempo stesso di rilevare i segni vitali.
    Era molto lontana dal luogo della detonazione.
    Poteva essersi sganciata durante il combattimento ed essersi allontana a causa dell'onda d'urto.
    Così come tanti altri pezzi dello Jaeger, si disse Herc.
    Non era pronto a darsi false speranze e si ripeteva una dopo l'altra tutte le spiegazioni possibili a quell'assurdo avvenimento... perché alla fin fine poteva essere solo un caso.
    « Rilevo delle attività celebrali, deboli ma sono presenti», esclamò con sollievo Tendo, « Herc, è la capsula sinistro. È quella di Chuck», continuò veloce, mettendo da parte ogni grado militare per lasciar trasparire l'entusiasmo ed il sollievo per quel miracolo.
    Max, come se fosse a conoscenza di quanto era appena accaduto, iniziò ad abbaiare riscuotendo l'uomo che, muto, continuava a fissare la schermata.
    Tutte le sue difese stavano crollando, lasciandolo impreparato a quella notizia.
    Pur non volendo dire ad alta voce cosa era accaduto - un modo come un altro per non guardare in faccia la realtà -, in cuor suo aveva accettato la... la sua morte.
    Gli aveva detto addio perché entrambi sapevano che quella sarebbe stata una missione suicida.
    Sentì quasi distrattamente Tendo avvertire i soccorsi, dando loro le coordinate per il recupero della terza capsula, e l'unica cosa che fu in grado di fare fu prendere in braccio il cane di suo figlio e stringerlo a sé.
    I segni vitali erano deboli, ma Chuck era vivo. Non gli importava come, ma era vivo.
    Le lacrime che aveva tentato di trattenere tornarono a riempirgli gli occhi e Max, leccandogli il viso, lo fece sorridere.
    Non era il momento di piangere, decretò asciugandosi rapidamente il viso. Quello era un momento di gioia.
    Rimase allora in impaziente attesa delle informazioni provenienti dai soccorsi, continuando a fissare i parametri vitali nella schermata.
    « Recupero della capsula avviato», dichiararono gli uomini sugli elicotteri, continuando poi a commentare le fasi del recupero.
    Alcuni si erano calati sulla cupola - « È ridotta male ma integra, signore», avevano dichiarato - per poi aprirne il coperchio con l'apertura manuale.
    « È incosciente, signore», spiegò uno dei soccorritori, « ma il battito è presente. Debole ma presente. Carichiamo sull'elicottero per i primi accertamenti»
    Herc annuì, anche se era conscio di non essere visto dagli uomini che si occupavano di Chuck. Nella sua mente si ripetevano le loro parole, trovandole immensamente rassicuranti.
    « Ritorniamo allo Shatterdome», annunciarono ed Herc, abbandonando i computer, si fece strada tra lo staff in festa per raggiungere l'eliporto, seguito a ruota da Tendo che non poteva fare a meno di definire quella situazione "miracolosa"... ed Herc non poteva che dargli ragione.
    Non era un credente, ma quella situazione era così assurda da non avere alcuna spiegazione logica… solo la mano di qualcuno di, beh… più grande, poteva aver salvato suo figlio.
    Attese il rientro degli elicotteri scrutando l'orizzonte, e quando vide le loro lontane sagome - seguite subito dall'ormai familiare rumore - trattenne ancora una volta il fiato.
    Passarono solo pochi minuti, per Herc infiniti.
    Non aveva mai visto un atterraggio così lento - o era la sua impressione? - e quando finalmente toccarono terra i suoi occhi si mossero alla ricerca di novità.
    Inconsciamente sperò di vedere Chuck scendere sulle proprie gambe - maledizione, avrebbe buttato tutto al diavolo per abbracciarlo come non aveva mai fatto in quegli ultimi anni -, ma sapeva quanto il suo fosse un desiderio impossibile. Dopo aver individuato Mako e Raleigh - camminavano vicino, sostenendosi a vicenda - scorse anche gli altri soccorritori scaricare una barella.
    Corse verso di loro senza nascondere la propria preoccupazione.
    « Chuck», il nome del figlio uscì dalle sue labbra senza neanche poterlo fermare quando i suoi occhi si posarono sul volto del ragazzo.
    Era pallido ed indossava ancora la tuta. Aveva un’espressione quasi rilassata, come se stesse dormendo, ma quella tuttavia era solo una pace apparente che veniva cancellata dalla presenza di un respiratore che copriva le labbra del ragazzo.
    « Marshal», lo salutarono subito i medici senza però arrestare la loro corsa verso l'infermeria - seguiti ovviamente da Herc.
    « Datemi ogni dettaglio», ordinò.
    « Non riporta gravi danni fisici se non qualche contusione», spiegò uno di loro, « temiamo qualche lesione interna causata dalla detonazione».
    « Quanto gravi?»
    « Non possiamo averne la certezza», rispose serio il medico, aprendo la porta dell'infermeria dove il resto dell'equipe si mise subito al lavoro spostando il ragazzo dalla barella ad un lettino, « ci occorrono ulteriori accertamenti. Vuole attendere fuori?»
    « No», tagliò corto Herc, scuotendo il capo, « resterò qui».
    Doveva essere lì quando Chuck si sarebbe svegliato. Quel pensiero però lo tenne ovviamente per sé mentre osservava ancora il viso pallido del ragazzo attaccato al respiratore e tutti i medici che si adoperavano per avere maggiori informazioni sulle sue condizioni.




    Edited by p r i n c e s s KURENAI ~ - 5/10/2013, 14:32
  10. .
    Titolo: How I met my first boyfriend
    Titolo Capitolo: 2. Dubbi e fiducia
    Fandom: Slam Dunk
    Personaggi: Un po’ tutti, OFM
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Verde
    Avvertimenti: Longfic, Het, Yaoi, Yuri
    Conteggio Parole: 2695
    Note: 1. Follia. Lasciamo perdere ma ho sempre voluto scrivere una cosa simileXD
    2. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD


    How I met my first boyfriend
    2. Dubbi e Fiducia



    Neanche a dirlo, Misaki aveva passato una notte terribile. Fortunatamente non aveva avuto nessun malore collegato alla botta - in quel caso sarebbe dovuta correre subito all'ospedale -, ma il dolore al naso non l'aveva fatta quasi dormire.
    Infatti, quando la mattina si presentò davanti allo specchio con i capelli corti e neri che sembravano un nido di rondini, gli occhi appesantiti dalle occhiaie ed il naso ancora gonfio, si disse che neanche tutte le scorte del miglior fondotinta al mondo l'avrebbero salvata.
    Sospirò quasi disperata poi, dopo essersi concessa un'abbondante colazione, si armò di tutto il suo talento e coraggio per poter dare il via alla sua opera di 'ristrutturazione': lavandosi, pettinandosi e dando fondo alle sue abilità di truccatrice.
    Il risultato finale poteva essere definito passabile, e anche se il naso sembrava ancora più grande del normale, almeno non avrebbe affrontato il lunedì scolastico con le borse sotto gli occhi.
    Cercò allora di sorridere alla sua immagine riflessa, scoprendo con sollievo che il dolore del giorno prima si era semplicemente trasformato in un pizzicante fastidio.
    Rincuorata da quella scoperta diede la buona notizia a sua madre - che cercava inutilmente di far mangiare il suo fratellino.
    « Meno male tesoro», rispose la donna, provando ancora ad imboccare il bambino - chiaramente più interessato a sentire la consistenza dell'omogeneizzato tra le dita, « mi raccomando: non fare troppi sforzi».
    Misaki annuì prendendo la cartella.
    « Non preoccuparti. Ci vediamo stasera», la salutò baciandole la guancia per poi rivolgersi al fratellino, « e tu vedi di fare il bravo bambino, Kotaro!»
    Questo rispose con un gridolino e dopo avergli baciato la fronte - le guance erano sporche - lasciò l'abitazione andando velocemente verso il treno.
    Si sentiva ancora un po' scombussolata - soprattutto per la notte passata quasi in bianco -, ma tutto sommato stava bene. Ciò che però la preoccupava era andare dall'infermiera come le era stato imposto.
    Non che la donna fosse cattiva - era solo molto autoritaria e si prendeva cura degli studenti in modo esemplare - ma temeva che le impedisse di riprendere gli allenamenti. Certo, era per il suo bene ma mancava pochissimo all'inizio delle partite e non poteva mancare.
    « Sempre persa nei tuoi pensieri, eh Misa-chan?»
    Una voce familiare la fece quasi sussultare e tornare con i piedi per terra. Lanciò una rapida occhiata attorno a sé, rendendosi conto di essere ormai arrivata alla stazione e di trovarsi in compagnia delle due gemelle, come ogni mattina d'altro canto.
    « Risa», mormorò accennando un sorriso, « avevi dubbi?», chiese.
    « Certo che no», ribatté la gemella.
    « Ti immaginavo peggio conciata, sai?», riprese Saori, prendendole il viso tra le mani per studiarle il naso con fare critico.
    « Il fondotinta fa quasi dei miracoli», ridacchiò Misaki.
    « Meno male! Non avrei sopportato l'idea di vederti sfregiata a vita!», esclamò Saori, abbracciandola con slancio ed assumendo un tono volutamente drammatico.
    « Esageri!»
    « Ovviamente», ghignò in risposta, spingendola poi verso la porta scorrevole del treno appena arrivato.
    Quella era una scena che si ripeteva sin da quando Misaki aveva memoria. Le loro famiglie erano sempre state molto legate - le loro madri avevano frequentato la stessa università - ed era stato normale per Misaki, Risa e Saori crescere insieme.
    Infatti prendevano quel treno da sempre. Le prime volte con i loro genitori poi, crescendo, avevano iniziato a viaggiare da sole.
    Misaki ricordava ancora con un sorriso le avventure passate su quei vagoni e tra l'altro era proprio in quel treno che lei e le sue migliori amiche avevano scelto di diventare pallavoliste.
    Erano delle bambine e non poteva non ricordare quanto fossero eccitante nel leggere le vicende di "Attacker YOU" e da lì, per seguire le orme di Yu Hazuki, avevano iniziato a giocare lasciando che fosse poi il tempo a far diventare quel capriccio infantile una passione.
    « Misaki?», la richiamò Risa, notando lo sguardo perso dell'amica.
    « Oh? Sì?»
    « A che pensi di tanto interessante?», chiese Saori, sorridendo.
    Erano davvero abituate ai suoi attimi di riflessione. Erano così nella norma che ormai non si arrabbiavano più.
    « A quando... beh, abbiamo scelto il nostro sport», svelò sincera.
    Le due scoppiarono a ridere, colpite a loro volta da quel ricordo.
    « Io ero Yu!», esclamò Risa portando a galla quelle infantili memorie, « Mentre voi due Nami e Kaori!»
    Anche Misaki ridacchiò - piano per non sentire troppo fastidio.
    « Avevamo anche i nostri attacchi speciali!», aggiunse.
    « Eravamo adorabilmente ridicole!», rincarò Saori, tenendosi la pancia a causa delle risate.
    I primi tempi - tutte e tre ricordavano perfettamente quel periodo - erano talmente convinte di quello che facevano che avevano più volte fatto delle figuracce. Fortunatamente crescendo erano diventate molto più serie e non cercavano più di emulare le loro eroine.
    Continuarono quindi a ricordare quel momenti d'infanzia per tutto il breve viaggio, e una volta giunte a destinazione si avviarono verso lo Shohoku.
    Sin da subito, mentre iniziarono ad incrociare i vari studenti, Misaki sentì gli sguardi su di sé.
    La voce si era ovviamente sparsa - sicuramente attraverso le bocche dei presenti all'allenamento del club di basket - e tutti le fissavano il naso con fare curioso mettendola non poco a disagio, cosa che fece andare su tutte le furie le sue amiche, specialmente Saori.
    Tra le due gemelle era forse quella più affezionata a Misaki. Voleva molto bene a sua sorella - come solo una gemella può fare - ma Misaki era e sarebbe rimasta la sua migliore amica.
    La proteggeva da tutto e da tutti, ed era sempre pronta ad alzare le mani in sua difesa. Anche Risa reagiva in quel modo - era il loro carattere -, ma Saori nei suoi gesti metteva un'immensa dose d'affetto. Misaki infatti pensava spesso a quanto fosse fortunata ad avere un'amica come lei.
    « Che avete da guardare, bifolchi? Girate alla larga!», esclamò infatti, stringendosi al braccio dell'altra.
    « Non avete mai visto un naso? Se volete vi aiuto io a vedere il vostro!», ribatté Risa, battendo un pugno nella mano.
    « Ragazze non è necessario!», si lamentò Misaki, senza però riuscire a non sorridere. Erano adorabili, non sapeva come avrebbe fatto senza di loro.
    « Odio quando gli altri ti guardano», borbottò Saori, lanciando delle occhiata truci a chi le circondava.
    « Gelosona», ribatté Misaki, « ora però vado in infermeria, ci vediamo in classe?»
    « Neanche per sogno, ti scortiamo fin lì», tagliò corto Risa, e nonostante le lamentele della sua amica, tutte e tre giunsero a destinazione.
    Iniziò subito un vero e proprio interrogatorio quando la donna la prese in consegna - « Dolori? Nausea? Svenimenti?» - e dopo dieci minuti di torture ottenne il tanto desiderato permesso per partecipare all'allenamento, che tuttavia doveva essere leggero per i primi tempi.
    Misaki, ovviamente, non la contraddisse: poteva allenarsi, non le importava il resto.
    « Certo! Nessuno sforzo eccessivo per i primi giorni!», rispose entusiasta per poi unirsi di nuovo alle gemelle per prendere la strada della loro classe.
    « Fantastico! Oggi ci si allena! E mi raccomando: non passare più vicino a quei cafoni del club di basket!», dichiarò Saori.
    « Non sono cafoni…», borbottò Misaki, « si sono subito preoccupati per me e sono anche venuti a trovarmi per sincerarsi delle mie condizioni».
    « E mi pare pure d’obbligo! Quel Sakuragi per poco non ti ammazzava!», insistette la gemella.
    « Esagerata!»
    Saori, in risposta, si esibì in una linguaccia che fece ridere le altre due.
    « E comunque», riprese Misaki, « anche se fosse non sarei mai così sfortunata da prendere un’altra pallonata!», precisò notando poi davanti a sé il viso familiare di Ayako, la manager del club di basket.
    La incontrava ogni mattina ma non avevano mai avuto modo di parlare, e dopo l’avventura del giorno prima entrambe non esitarono a salutarsi.
    « Salve ragazze!», le salutò la manager avvicinandosi.
    « Ayako, ciao!», rispose Misaki, accennando un sorriso mentre le due gemelle rispondevano con un caloroso: « Ehi!»
    « Come va oggi?», chiese Ayako, scrutandole il naso.
    « Molto meglio, grazie. Ho passato una notte infernale, ma non ho avuto altri malori. L’infermiera mi ha addirittura dato il permesso di allenarmi, non devo strafare ovviamente», spiegò sincera.
    « Fantastico, anche i ragazzi saranno felici di saperlo»
    « Ah sì?», saltò subito su Saori.
    « Certo, erano preoccupati», assentì tranquillamente Ayako.
    « Ringraziali», rispose Misaki arrossendo un poco mentre Saori sbuffava.
    « Spero però per loro che stiano più attenti la prossima volta», aggiunse Risa.
    « Dire ad Hanamichi di stare attento è complicato, è un principiante. Non sa ancora controllarsi», spiegò Ayako, « ma ormai sappiamo come tenerlo a bada, quello è stato un caso fortuito».
    « Vorrà dire che starò lontana dalla palestra», ridacchiò Misaki.
    « Ma no! Sei la benvenuta! Anzi, siete le benvenute. Inoltre manca poco all’inizio del campionato, il 19 ci scontriamo con il Miuradai e siete ovviamente invitate».
    « Noi abbiamo la prima partita il 20», constatò Misaki guardando sia Saori che Risa alla ricerca di una conferma, « potremo farci un salto, no?»
    Le due gemelle non risposero, stupite da quella proposta.
    « Beh, a patto che anche tu faccia lo stesso», aggiunse poi con un piccolo sorriso che fece ridacchiare Ayako.
    « Sarebbe fantastico!», esclamò, « Affare fatto!»
    « Entrambe le squadre hanno bisogno di tutto il sostegno possibile», e Misaki lo pensava per davvero, soprattutto dopo la lunga chiacchierata con la manager il giorno prima.
    I sogni di quei differenti gruppi di atleti erano gli stessi, inoltre si sentiva bene in compagnia di Ayako - aveva superato lo scoglio della diffidenza e poteva parlarle tranquillamente.
    « Esatto», assentì l’altra ed anche se entrambe desideravano continuare a chiacchierare, la campanella le riportò alla realtà costringendole a salutarsi e ad entrare nelle loro classi.
    « Hai intenzione di fraternizzare con quegli scimmioni?», la interrogò subito Saori quando presero posto in attesa dell’insegnante.
    Misaki sbatté gli occhi stupita.
    « Ayako mi sembra simpatica», rispose innocentemente.
    « Beh, andare alla loro partita però…», spiegò Risa, lanciando un’occhiata alla sorella che aveva in volto un broncio offeso.
    « Non mi piacciono!», esclamò infatti.
    « Non ti devono piacere, Saori! Siamo lì per Ayako e per sostenere la squadra come faranno che loro sicuramente!», si difese Misaki, « Abbiamo tutti lo stesso obiettivo».
    « Vero ma… non innamorarti di quegli idioti, okay?»
    Misaki non riuscì a non diventare rossa nel sentire quelle parole.
    « Ma che d-dici, Saori?!»
    « Dico solo che tutte vanno dietro a quel Rukawa! Non diventare un’oca come loro», tagliò corto la gemella, incrociando le braccia al petto.
    « Non è male ma… non è il mio tipo», borbottò imbarazzata Misaki per poi alzarsi insieme a tutta la classe per accogliere l’ingresso dell’insegnante.
    Alle volte proprio non riusciva a capire la sua migliore amica.
    Sapeva quanto Saori fosse affezionata a lei e spesso scherzava sulla sua gelosia… tuttavia alcune volte le sembrava che gli scherzi della ragazza fossero intrisi di un fondo di verità e possessività.
    Come se Saori fosse… innamorata di lei.
    Misaki scosse prontamente la testa per allontanare quel pensiero e lanciare un’occhiata veloce alla sua amica, la stare seguiva la lezione con in volto ancora quello stesso broncio di poco prima.
    Avrebbe voluto dire che era impossibile ma non ne era in grado. Quel dubbio si era insinuato in Misaki già da tempo, ma sfortunatamente era incapace di darsi una risposta concreta e poteva solo allontanare quel pensiero dicendosi che Saori, in quanto sua migliore amica, le avrebbe detto tutto… anche quella cosa.



    Come promesso, Misaki cercò di non strafare durante l'allenamento, decidendo di partecipare solo al riscaldamento e ai fondamentali, premendo parte poi solo marginalmente ai vari schemi di gioco di attacco e difesa che l'allenatrice - Fumiko Fujiwara, nonché madre di Junko - faceva loro provare.
    Avevano provato varie formazioni e passaggi e quasi tutti avevano dato dei buoni risultati, e anche se alcuni risultavano ancora un completo disastro, il morale della squadra al termine dell'allenamento si rivelò particolarmente alto... tuttavia il classico discorso dell'allenatrice le riportò con i piedi per terra.
    « Alla fine di questa settimana ci scontreremo contro la squadra dell'istituto Ryugasaki», esordì la donna, facendo sedere sul pavimento le sue atlete, « è inutile dirvi che si tratta di un incontro ad eliminazione diretta e che pretendo il massimo da tutte voi»
    « Certo Coach!», esclamò Risa divertita, « Le distruggeremo!»
    Subito a quella sua affermazione si unì Saori con un urlo di battaglia che fece ridacchiare le altre.
    « Non sottovalutate l'avversario», le riprese la donna.
    « Non le stiamo sottovalutando», si difesero le gemelle che fungevano da trascinatrici.
    « Sta di fatto che voglio vedervi serie senza prendere sotto gamba l'avversario, intesi?»
    Le ragazze risposero affermativamente e vennero finalmente congedate.
    Si concessero allora una veloce doccia poi, esauste ma soddisfatte, presero la strada per uscire dall'istituto.
    « Siete state grandiose anche oggi», si complimentò Misaki camminando fianco a fianco alle gemelle.
    « Avevi dei dubbi?», insinuò Risa.
    « Beh, senza il mio supporto eravate perse», ribatté l'altra.
    « Certo, come no. Credici!»
    « Mi duole ammetterlo, ma Misa-chan ha ragione», rispose invece Saori afferrando il braccio dell'amica, « senza di te è diverso!»
    Misaki arrossì, cercando di non ripensare ai dubbi che l'avevano colta quella mattina.
    « Vero. Giocavamo meglio», ghignò Risa.
    « Esattamente», esclamò Saori ridendo e Misaki, riprendendosi dall'imbarazzo, cercò di colpirla con la cartella - mancandola a causa dell'agilità dell'amica.
    « Se vi prendo», le minacciò ridendo ed inseguendole, salvo poi bloccarsi quando notò le luci della palestra di basket accese.
    Osservò le alte finestre illuminate e anche le gemelle, curiose, vi lanciarono un'occhiata.
    « Si stanno ancora allenando?», domandò più che altro a se stessa la ragazza.
    « Ma che ce ne importa?», ribatté Saori.
    Misaki la guardò quasi pronta a proporre di andare a dare un'occhiata, anche se pensandoci bene era una cosa davvero stupida. Rinunciando a quell'idea cercò di sorridere.
    « Torniamo a casa, dai», le incoraggiò lasciando alle sue spalle prima la palestra illuminata poi lo stesso istituto Shohoku.



    Intanto, proprio dentro la palestra di basket, Hisashi Mitsui si stava allenando sotto canestro.
    Era sudato ed anche parecchio stanco, ma soprattutto era anche un poco demoralizzato.
    Anni prima avrebbe sostenuto quell'allenamento quasi senza alcuna fatica e quella stanchezza era soltanto il risultato del suo abbandono.
    Doveva assolutamente riprendere le forze, recuperare in suo vecchio tono muscolare e l'agilità. Non poteva deludere il signor Anzai che era stato così generoso da accoglierlo di nuovo in squadra.
    Gli doveva tutto e quello era l'unico modo che conosceva per ripagarlo folla fiducia che gli era stata concessa.
    Riprese allora a palleggiare, provando una serie di tiri sotto canestro ed altri oltre la linea dei tre punti.
    Aveva una buona media di realizzazione ma poteva ancora migliorarla, e con quei coraggiosi e speranzosi pensieri, continuò ad allearsi fino a tardi, arrendendosi solo quando le sue braccia iniziarono a rifiutare gli ordini.
    Finì allora per trascinarsi fino agli spogliatoi dove si concesse una lunga e rilassante doccia prima di intraprendere la strada di casa.
    Percorse il tragitto silenzioso e pensieroso, e una volta giunto a destinazione non si stupì di trovarsi davanti sua madre preoccupata per il suo ritardo.
    « Hisashi...», pronunciò solo il suo nome senza aggiungere altro e Mitsui non poté non sentirsi in colpa.
    L'aveva fatta soffrire tantissimo in quegli ultimi anni e lei, paziente, era sempre stata lì accanto a lui, pronta a medicarlo e a riscaldargli la cena anche contro il volere del marito - suo padre era molto duro con lui e credeva che le punizioni potessero farlo redimere.
    Le sorrise togliendosi le scarpe.
    « Perdonami, mi sono attardato in palestra ad allenarmi», le spiegò sincero.
    A dirla tutta non si aspettava che sua madre ci credesse, ma aveva deciso di non mentirle più.
    Doveva riconquistare la sua fiducia e ripagarla per tutta la pazienza che aveva dimostrato nei suoi confronti.
    « Va bene», rispose la donna senza chiedere altro, fidandosi delle sue parole.
    « Il papà?», domandò piano.
    « Lavoro, non preoccuparti», lo rassicurò, facendogli poi strada verso la cucina, « ti riscaldo la zuppa», aggiunse.
    Hisashi sorrise ancora e la seguì.
    La fiducia che la donna riponeva in lui era sia dolorosa che piacevole e una parte di Mitsui desiderava davvero ringraziarla per tutto quello che stava facendo. Ma non sarebbe mai stato bravo con le parole, almeno non quando si trattava di aprire il suo cuore.
    « Mamma?», la richiamò piano.
    « Sì?»
    La abbracciò senza dire altro, affondando il capo sui suoi capelli lisci e scuri, lasciando che fosse quel gesto a parlare per lui e a dire alla donna quanto le volesse bene.
    « Ti voglio bene anch'io, piccolo mio», rispose lei, carezzandogli il capo con tenerezza, senza neanche tentare di nascondere il proprio sollievo.
    Suo figlio era di nuovo lì, non lo aveva perso come aveva temuto in quegli ultimi tempi... e lei non aveva bisogno d'altro per essere davvero felice.





    Edited by p r i n c e s s KURENAI ~ - 17/9/2013, 19:47
  11. .
    Titolo: How much?
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Newton Geiszler, Hermann Gottlieb
    Genere: Introspettivo, Erotico
    Rating: Rosso
    Avvertimenti: Oneshot, Slash, Lemon
    Conteggio Parole: 870
    Note: 1. L’amore mio voleva del p0rno ed ho fatto questo X°D
    2. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD




    Da quanto tempo stavano 'giocando' in quel modo?, si chiese Hermann in un improvviso lampo di lucidità.
    " Un quarto d'ora o forse poco di più", rispose mentalmente, chiudendo gli occhi nel sentire i mugolii compiaciuti che il suo amante stava emettendo.
    Da quanto era eccitato? Quale era la sua media di tempo per quanto riguardava il coito? Con la penetrazione il tempo si sarebbe ridotto?
    Forse per avere una risposta più precisa doveva calcolare anche la sua età, la frequenza con la quale si masturbava, il livello d'eccitazione e...
    « Hermann! Non pensare e scopami!»
    ... e quella maledettissima variabile emotiva, nota come Newton Geiszler, che da sola era in grado di fargli raggiungere l'orgasmo.
    Strinse i denti, muovendo d'istinto il bacino per far scontrare il suo sesso sulle natiche di Newton senza però penetrarlo.
    Si sentiva fuori da ogni schema predefinito e la cosa non poteva che spaventarlo.
    Hermann era ben conscio di essere un maniaco del controllo con un disturbo compulsivo che lo costringeva a cercare di dare un numero ed una spiegazione logica a qualsiasi cosa. Era diventato un modo come un altro per distrarlo, per aiutarlo a mantenere i problemi lontani… una cosa che, con il passare del tempo, si era trasformata in un lavoro.
    Quindi per lui era davvero difficile ragionare con il corpo - riuscire a penetrare Newt che lo stava quasi implorando - e non con il cervello.
    Non era in grado di lasciarsi andare, non senza aver prima fatto dei calcoli e pianificato quanto doveva accadere... perché lui doveva sempre e comunque avere il controllo di ogni cosa, anche di quell'amplesso che di logico aveva ben poco.
    « Herm! Ti prego!», esclamò al limite della sopportazione Newton, spingendo il bacino verso di lui e portando una mano tra le sue gambe per iniziare a masturbarsi.
    Il suo corpo era una macabra opera d'arte, constatò Hermann con la bocca socchiusa nell'osservare il suo amante toccarsi.
    Quei Kaiiju erano di cattivo gusto, eppure il fisico del suo collega lo attirava ed eccitava come mai nessuno prima di lui.
    Deglutì a vuoto nel sentire i suoi gemiti, accompagnati dai movimenti lascivi del bacino, e chiudendo ancora gli occhi tentò di ritrovare la concentrazione.
    Agì inutilmente, soprattutto quando il suo corpo si mosse contro la sua volontà, trasformando quella pressione in una vera e propria richiesta d'ingresso che non gli venne negato.
    Newton era caldo e stretto. Accogliente ed anche arrendevole mentre si apriva per lui al suo lento passaggio, donandogli dei rumorosi versi di piacere.
    Hermann mugugnò a sua volta, fermandosi come per permettere all'altro di abituarsi anche se in realtà era lui stesso ad avere bisogno di quell'attimo di pausa, stravolto dalle sensazioni che stava provando.
    Newt lo chiamò più volte, incoraggiandolo ad andare avanti con più decisione, cingendogli poi le spalle con le braccia per attirarlo a sé e coinvolgerlo in un lungo bacio.
    Sospirò ancora, rilassandosi contro quelle familiari labbra, e si costrinse a spingere ancora facendo dondolare il bacino avanti e indietro per aprire un passaggio nella calda carne del suo amante.
    « Herm... datti ah... una m-mossa», lo incoraggiò di nuovo Newt, stringendo la presa delle sue braccia come per impedirgli di andare via.
    Per un momento Hermann provò quasi a concentrarsi sul numero di spinte, la velocità dei respiri ed i battiti del cuore - cose che lo avrebbero indubbiamente fatto calmare -, ma tutto quello su cui aveva basato la sua esistenza sembrava volergli sfuggire via, lasciando solo spazio al pericoloso istinto che aveva sempre cercato di soffocare.
    Non poteva fermarlo né dare un freno alle frenesia che inesorabilmente lo spingeva ad aumentare il ritmo di quei movimenti, affondando completamente nel corpo di Newton per poi abbandonarlo in attesa delle spinte successive che non tardarono ad arrivare.
    Ansimava senza più ritegno, sfiorando le labbra di Newt con le sue ad ogni movimento, lasciando che fosse l'istinto a guidarlo in quell'amplesso... a fargli sentire l'orgasmo ormai prossimo ed il corpo di Newt chiudersi attorno a lui vittima degli spasmi.
    Neanche il ben presente fastidio alla gamba sembrava essere in grado di fargli mantenere i piedi per terra.
    Continuava a spingere e a gemere incontrollato, nella sul testa solo Newt e nient'altro.
    I suoi versi. Il corpo che lo cercava ed accoglieva. Il profumo. Le mani. L'espressione persa mentre raggiungeva l'apice del piacere.
    Tutto.
    Esisteva solo Newton nei suoi pensieri, e con quella sorprendente idea - così lontana dal suo solito essere cinico e controllato - raggiunse l'orgasmo riempiendo il corpo del suo amante con il suo seme e soffocando i gemiti con un bacio.
    " Perfetto", pensò ancora scosso, uscendo dal suo corpo lentamente ed appoggiando la fronte sul petto dell'altro.
    Lentamente quella frenesia iniziò a scivolare, lasciando dietro di sé un chiaro senso di soddisfazione.
    Sorrise tra sé e sé - era forse… felice?! -, accogliendo poi stancamente e senza troppi problemi la sua normale indole che lo spinse ad iniziare a contare i battiti dei loro cuori che pian piano iniziarono a placarsi.
    Si chiese quanti ne avrebbero condivisi e quanti ne mancavano prima di poter dare un nome ai loro sentimenti... ma per il momento non riuscì a darsi una risposta - o forse non voleva darsela -, lasciando invece che quel sempre più regolare ritmo cardiaco ed il profumo di Newt - insieme al suo tenero ma possessivo abbraccio - lo cullassero fino a farlo addormentare.






  12. .
    Titolo: How I met my first boyfriend
    Titolo Capitolo: 1. Tutto è iniziato a causa di una pallonata
    Fandom: Slam Dunk
    Personaggi: Un po’ tutti, OFC
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Verde
    Avvertimenti: Longfic, Het, Yaoi, Yuri
    Conteggio Parole: 3500
    Note: 1. Follia. Lasciamo perdere ma ho sempre voluto scrivere una cosa simileXD
    2. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD


    How I met my first boyfriend
    1. Tutto è iniziato a causa di una pallonata



    La sua prima cotta adolescenziale? Poteva esordire con un: tutto è iniziato a causa di una pallonata.
    Sicuramente quella sarebbe stata una storia divertente da raccontare ai suoi nipotini in futuro, ma in quel momento Misaki Kanno provava di tutto tranne che ilarità.
    Perché solo un attimo prima stava andando verso la palestra di pallavolo e quello dopo era appoggiata al muro, con le mani premute sul volto che pulsava dolorosamente. Non sapeva esattamente che cosa le fosse successo, ma le faceva così male che non era neanche in grado di trattenere le lacrime mentre stringeva gli occhi in una chiara smorfia.
    Inoltre, come se non bastasse, faticava addirittura a reggersi in piedi e solo dopo qualche momento di confusione riuscì a sentire delle voci preoccupate attorno a lei.
    « Stai bene?»
    « Hai visto che hai combinato incapace?»
    « M-ma non l'ho fatto apposta! Non prendertela sempre con me Gorilla! La colpa è di Rukawa!»
    « Idiota...»
    « PROVA A RIPETERLO SE HAI IL CORAGGIO!»
    Misaki scosse il capo per rispondere alla prima domanda, cercando di socchiudere gli occhi per cercare di mettere a fuoco i suoi interlocutori - che stavano chiaramente litigando e, visti i rumori, prendendosi a botte.
    Lentamente iniziò a riprendere un po' la cognizione di sé e di quello che la circondava, avvertendo anche un caldo liquido scivolare fuori dal suo naso e riversarsi sulla mano.
    « Ma che...»
    Allontanò il palmo dal viso istintivamente solo per scoprirlo sporco di sangue.
    In un'altra occasione avrebbe reagito prontamente - non era la prima volta che perdeva un po' di sangue, non era mica la fine del mondo - ma in quel momento era troppo confusa a causa della 'cannonata' appena ricevuta.
    « Ayako accompagnala in infermeria»
    « Sì capitano!», rispose una ragazza. Era l'unica abbastanza vicina da essere riconosciuta, gli altri erano sfocati e attorniati da fastidiosi puntini bianchi, e solo per quel motivo Misaki si rese conto che si stava rivolgendo a lei.
    « Riesci a camminare?»
    « Io... sì, certo...», rispose senza troppa convinzione, accettando però il braccio che la ragazza le porgeva per sorreggersi, e le bastò un passo per comprendere quanto quell'aiuto fosse importante.
    Camminò lentamente continuando a tenere la mano premuta sul viso, traendo poi un sonoro sospiro di sollievo quando misero piede nell'infermeria e la donna che si occupava di quella piccola sala la prese in consegna.
    « Ha preso una pallonata in faccia», spiegò rapida la ragazza che la stava accompagnando, ed in men che non si dica Misaki si ritrovò seduta sul lettino, con del cotone dentro le narici e un sacchetto di ghiaccio sul naso, a rispondere a delle domande a suo dire ovvie - ma sicuramente necessarie vista la botta ricevuta.
    « Ti ricordi come ti chiami?»
    « Certo. Misaki Kanno».
    « Quanti anni hai?», chiese ancora la donna.
    « 16, frequento il secondo anno», precisò, certa di aver anticipato una domanda.
    « Sì. Che giorno è oggi?»
    « Ehm... 14 Maggio credo»
    « Esatto. Sai dove ti trovi?», continuò l'infermiera, controllandole gli occhi e le orecchie.
    « Nell'Infermeria dell'Istituto Shohoku»
    « Perfetto. Sembra che tu non abbia riportato nessun danno grave, la confusione iniziale era semplicemente dovuta alla botta», dichiarò sollevata la donna, « ma devi rimanere qui per qualche accertamento. Spesso questi traumi hanno degli effetti ritardati», aggiunse, guardando la ragazza come per sfidarla ad opporsi.
    Misaki, infatti, aprì bocca per protestare ma la rinchiuse per borbottare un basso: « Sì...»
    L'infermiera al contrario sorrise soddisfatta - sembrava tanto aver pensato un: « Saggia scelta» -, poi tornando seria si rivolse all'altra studentessa che aveva accompagnato Misaki fin lì.
    Solo in quel momento quest'ultima riuscì a guardarla per bene e a riconoscerla. L'avevano chiamata Ayako se non ricordava malem ma era abbastanza certa che frequentassero lo stesso anno.
    « Cos'è successo?», chiese la donna per avere più informazioni e stilare un breve rapporto su quell’intervento.
    « È stato un'incidente, il pallone ha preso un rimbalzo sbagliato e Kanno-san si è trovata nel corridoio nel momento meno opportuno», spiegò Ayako rivolgendo poi a Misaki un sorriso ancora intriso di preoccupazione, « mi dispiace».
    « Non preoccuparti», ribatté muovendo la mano per accompagnare le sue parole.
    Faceva male, certo, ma un rimbalzo sbagliato era nella norma. Giocando a pallavolo capitava spesso… certo, il pallone da basket era molto più pesante ma stava abbastanza bene.
    « D'accordo. Ora tu, non alzarti per nessuna ragione», l'infermiera riprese la parola interrompendo i suoi pensieri per aiutarla poi a posare la schiena su dei cuscini e a tirare le gambe sul materassino, facendole mantenere sempre una posizione seduta ma decisamente più comoda, « Informerò i tuoi genitori, quindi sta buona. Capito?»
    « Sì, sì... starò buona, ho capito», borbottò osservando poi la donna abbandonare l'infermeria per andare sicuramente nella segreteria.
    Finalmente sole le due ragazze si scrutarono per qualche attimo, poi Misaki - facendo un po' di memoria - riprese la parola.
    « Ayako... Inowaki, vero?»
    « Sì. Siamo dello stesso anno», rispose questa per poi aggiungere un: « Hai bisogno di qualcosa?»
    « No no! Tranquilla! Volevo solo ringraziarti e... se devi tornare all'allenamento vai pure! Tanto non mi muovo da qui».
    « Non se ne parla!», dichiarò Ayako, « Sei sola».
    Misaki sorrise appena, ma quel movimento facciale le strappò una smorfia di dolore.
    « Domani avrò il naso grande come una patata, sarò inguardabile», si lamentò strappando una risata anche all'altra che, annuendo, parve quasi comprendere il suo scherzoso dramma.
    Tuttavia, dopo quel breve scambio di battute, calò il silenzio. Misaki non era una chiacchierona - almeno non con le persone con le quali aveva poca confidenza -, era più una tipa da 'ascolto poi nel caso rispondo'.
    Continuò a premere il ghiaccio sul naso, pensando poi a chiamare il capitano della squadra per scusarsi riguardo a quell'assenza inaspettata.
    « Sei nel club di pallavolo, vero?», chiese d'un tratto Ayako.
    Forse, si disse Misaki, quel silenzio la metteva a disagio e sinceramente non poteva darle torto.
    Le sue compagne erano abituate ai suoi lunghi momenti di riflessione, gli altri un po' meno.
    « Sì, infatti credo che le ragazze siano preoccupate», ammise sincera.
    « Lo credo anche io», assentì Ayako, « state per iniziare il torneo anche voi?»
    Misaki annuì, accennando un piccolo sorriso sincero - sentì ancora un po' di dolore ma riuscì ad ignorarlo.
    Tutti gli allenamenti massacranti avrebbero finalmente dato i loro frutti. La loro inoltre era un ottima squadra e non aveva dubbi: sarebbero arrivate molto in alto.
    « Voi pure? Intendo, nel club di basket»
    « Sì! Quest'anno abbiamo anche delle reali possibilità di arrivare alle Nazionali», dichiarò con voce carica d'orgoglio.
    « Lo spero tanto», rispose gentile Misaki.
    Era il desiderio di tutti partecipare a quel torneo, lei stessa condivideva quello stesso sogno.
    « Speriamo solo che non ci siano complicazioni», aggiunse poi, riferendosi alla sua ferita.
    « Certo che no!», esclamò Ayako cercando di rassicurarla, « A parte il nasone sono certa che non avrai altri problemi»
    Misaki ridacchiò cauta ma la sua risposta venne bloccata dall'ingresso dei giganti della squadra di basket.
    « Ehi ragazzi!», li salutò Ayako, « Preoccupati per la sorte di Kanno-san?»
    Questi non risposero e Misaki, continuando a tenere il ghiaccio sul naso, non poté non osservarli inizialmente intimidita per la loro stazza - constatando distrattamente che per quanto poco sapesse di basket, alcuni di loro erano dei visi noti pure a lei -, ma cercò di non darlo a vedere, soprattutto quando il più grosso si fece avanti.
    « Va tutto bene?», domandò con un tono così gentile che entrava fortementente in contrasto con il suo aspetto.
    Uno come lui non passava inosservato ma pur non ricordandosi il suo nome sapeva che lui frequentava il terzo anno - così come quello con gli occhiali che lo aveva accompagnato.
    « S-sì... sono stata meglio ma non sto morendo», ribatté, cercando di recuperare un po' di sicurezza e del suo umorismo - non voleva apparire come una ragazzina piagnucolosa.
    « Ne sono sollevato», rispose il ragazzo, afferrandone poi un altro per il braccio e costringendolo ad inchinarsi con una mano sulla testa, caratterizzata da una folta chioma rossa, « Scusati, imbecille».
    Misaki, pur non conoscendolo di persona, sapeva già come si chiamava. Il suo nome era Hanamichi Sakuragi ed era una matricola, la cui fama di poco di buono era giunta fino alle sue orecchie.
    Il ragazzo, con il viso imbarazzato faceva quasi concorrenza al colore dei suoi capelli, mugugnò qualcosa ma quando il più grande gli strizzò per bene la testa buttò fuori un ben più chiaro: « Mi dispiace».
    « Non devi! Tranquillo Sakuragi», rispose gesticolando, sinceramente dispiaciuta per l'imbarazzo del giovane - a pelle non le sembrava poi così pericoloso, forse era solo per via dello stranissimo colore dei capelli che aveva una brutta reputazione.
    Sakuragi, quasi sollevato dalla sua risposta, si esibì in un ampio sorriso.
    « Ma in fondo non è neanche colpa mia. È stato Rukawa! Intralciava il mio talento! Un genio del basket come il grande Hanamichi Sakuragi non può sbagliare!», dichiarò, scoppiando poi in una risata.
    « Hn... idiota», ribatté un altro ragazzo che era rimasto alle spalle del rosso insieme ad altri due e che Misaki riconobbe come l'idolo delle folle: Kaede Rukawa.
    Era impossibile non conoscerlo.
    Perfino alcune delle sue compagne di squadra erano infatuate di lui e, a dirla tutta, pure la stessa Misaki aveva più volte sospirato davanti a quella matricola.
    " Come darmi torto?", gridò internamente, " È uno dei più bei ragazzi che abbia mai visto!"
    « Come osi?! Ripetilo se hai coraggio!», ribatté Sakuragi pronto ad azzuffarsi con Rukawa, venendo però prontamente bloccato da un possente pugno del ragazzo più grande.
    « Sta zitto, idiota!», lo riprese, ignorando le lamentele del rosso che, tuttavia, strapparono una risata a Misaki.
    Erano divertenti dopo tutto ma, per quanto quella visita si stesse rivelando piacevole, la sua risata le strappò un mugugno di dolore.
    " Maledetti muscoli facciali!"
    « Va tutto bene, Kanno-san?», si preoccupò subito il ragazzo con gli occhiali, notando la sua espressione.
    « S-sì, devo solo ricordarmi di non fare smorfie», rispose piano.
    « Possiamo fare qualcosa per te?», chiese ancora il ragazzo.
    Misaki rimase interdetta, ma prima di poter rifiutare la sua offerta, Ayako si fece avanti e rispose per lei.
    « Sono certa che le ragazze del club di pallavolo siano preoccupate. Qualcuno dovrebbe andare ad avvertirle»
    « N-non è necessario!»
    « È a causa nostra se stai saltando un allenamento», tagliò corto il più grande, « è nostro dovere informare le tue compagne e l'allenatrice delle tue condizioni».
    Era un tono che non ammetteva repliche e Misaki, seppur imbarazzata, annuì.
    « Grazie», sussurrò per poi salutare quello strano gruppo che abbandonò l'infermeria.
    « Sono dei bravi ragazzi, un po' stupidi ma è questo quello che passa il convento», ridacchiò Ayako, « ed era anche meglio che l'infermiera non lì vedesse. Avrebbe sicuramente dato di matto per le troppe visite», aggiunse, spiegando il motivo della sua precedente intromissione.
    « Oh, beh hai ragione», rispose Misaki, non riuscendo poi a trattenersi dal sorridere, « certo che con quella gente tu non ti annoi mai, eh?»
    « Proprio mai!», ribatté Ayako, lanciandosi poi in quella che si rivelò essere una ‘spettegolata vecchio stile’ che mise Misaki notevolmente a suo agio - non parlava, doveva solo ascoltare.
    In quel mondo venne a conoscenza dei nomi dei membri del club e delle loro piccole avventure.
    Il Capitano, il ragazzo grande e grosso, si chiamava Takenori Akagi e come aveva notato Misaki era una persona gentile ed intelligente, l'esatto contrario di quello che suggeriva il suo aspetto.
    Inoltre, come aggiunse poi Ayako, si sarebbe sorpresa nel vedere quanto sua sorella - una matricola di nome Haruko - sembrasse diversa da lui.
    Poi vi era Kiminobu Kogure, del terzo anno come Akagi, che ricopriva il ruolo di Vice Capitano e di 'Mammina' del gruppo. Era lui la voce buona che cercava sempre si placare gli animi.
    C'era anche un terzo ragazzo dell'ultimo anno, un certo Hisashi Mitsui, che sfortunatamente Misaki non aveva ben presente, così come uno del suo stesso anno che si chiamava Ryota Miyagi - innamorato di Ayako, o almeno così diceva quest’ultima.
    Ed infine, c'erano le due matricole che Misaki aveva già riconosciuto: Sakuragi e Rukawa, che non perdevano mai l’occasione per battibeccare.
    Erano un gruppo strano ma, come aveva già constatato, parecchio divertente.
    La sua squadra, appuntò mentalmente, era meno caotica ma c'erano altrettante ragazze che potevano essere definite "teste calde". Prime su tutte le sue migliori amiche: le gemelle.
    Mai in tutta la sua carriera di pallavolista - giocava sin da quando era una bambina - aveva visto una coppia così affiatata come quella formata dalle sorelle Takekura.
    La prima si chiamava Risa ed era la loro palleggiatrice, mentre la seconda, Saori, ricopriva il ruolo di centrale. Erano entrambe alte - la superavano di almeno cinque centimetri visto che raggiungevano tranquillamente il metro e ottanta - ed erano dotate di un’ottima elevazione oltre che di visione e velocità di gioco.
    Le chiamavano “la coppia d’oro” proprio per le loro geniali trovate durante le partite, e l’unica pecca che si poteva imputare a quelle due fuoriclasse era il loro carattere. Troppo vivaci, chiassose e sfortunatamente attaccabrighe… ma alla fin fine, constatò Misaki sorridendo tra sé e sé, erano considerare da tutte delle ottime amiche. Le sue soprattutto.
    Le altre sue compagne erano altrettanto forti e brave, ma dotate decisamente di un animo ben più calmo.
    « Kanno-san?», la voce di Ayako la riscosse, strappandola dai suoi pensieri.
    « S-sì?», rispose.
    « Eri persa nei tuoi pensieri?», chiese l’altra ragazza accennando un sorriso che parve allargarsi quando Misaki arrossì visibilmente.
    « Sì, perdonami. A volte mi succede», spiegò imbarazzata.
    « Grandi pensieri per grandi personalità», ridacchiò Ayako strappando una debole risatina anche all’altra.
    « Ti prego, non farmi ridere!», si lamentò Misaki sentendosi quasi più a suo agio con la manager del club di basket - era una reazione istintiva, sentire parlare le persone la faceva calmare e rilassare.
    « Pensavi al tuo figone?», insinuò l’attimo dopo l’altra ragazza, ridendo quando il rossore di Misaki crebbe ulteriormente.
    « Assolutamente no!», rispose, « Pensavo alle mie compagne di squadra… abbiamo due giocatrici che mi ricordano i ragazzi del vostro club, tutto qui», ammise.
    « Ah si?»
    « Credo tu le conosca, sono nel nostro stesso anno. Risa e Saori Takekura», spiegò, mettendo via il sacchetto di ghiaccio che ormai si stava squagliando.
    « Le due stangone?»
    « Esattamente. Sono due teste calde, ma sono anche delle giocatrici eccezionali. Sono certa che se quest’anno arriveremo in alto sarà anche grazie a loro», svelò sincera, cercando con lo sguardo uno specchio - o di una qualunque superficie riflettente - per verificare le condizioni del suo povero naso.
    « Noto con piacere che non ti sei mossa signorina», la voce dell’infermiera, tuttavia, le impedì di continuare le sue ricerche, « i tuoi genitori saranno qui a breve», continuò.
    « Grazie»
    « Ti senti bene? Hai sonno, mal di testa o la nausea?»
    « Solo un po’ di mal di testa, e mi fa male quando rido o in ogni caso quando faccio qualche smorfia»
    « Allora è tutto nella norma», rispose con un pizzico di sollievo la donna.
    « Posso… vedere in che condizioni è il mio naso?», chiede, ignorando la risatina di Ayako.
    « Niente che un po’ di fondotinta non possa coprire, a parte il gonfiore», dichiarò l’infermiera prendendo uno specchietto dalla sua scrivania per porgerlo alla ragazza preoccupata.
    Si scrutò con attenzione, aveva gli occhi un po’ arrossati e gonfi - aveva pianto un po’ per il dolore dopotutto - e il viso ancora un po’ sporco di sangue. Poi beh… c’era il naso che era effettivamente gonfio e rosso - ben visibile anche con del trucco correttore - ma non era niente di così terribile.
    « Pensavo peggio», ammise restituendo lo specchio.
    « Il gonfiore sarebbe stato ben peggiore se non avessi applicato il ghiaccio», ribatté l’infermiera riponendo l’oggetto nella sua scrivania.
    Entrambe le ragazze annuirono e lasciarono che calasse ancora il silenzio, che per l’ennesima volta venne spezzato dall’ingresso di qualcuno.
    Quattro ragazze del club di pallavolo.
    « Misa-chaaan!»
    Sia Ayako che l’infermiera sussultarono per quell’urlo e non poterono far niente per fermare due ragazze che si catapultarono letteralmente su Misaki.
    « R-Risa! Saori!»
    « Come stai?»
    « Ti fa molto male?»
    « Hai un naso che sembra un peperone, lo sai vero?»
    « Avrei detto pomodoro»
    « Ragazze! Un po’ di contegno!», esclamò l’infermiera, riuscendo a bloccare l’infinito fiume di parole delle due giovani atlete.
    « Oh, ci scusi», mormorò imbarazzata una delle gemelle.
    « Allora? Come stai?», riprese l’altra.
    Misaki si sforzò di non sorridere davanti ai visi preoccupati delle due gemelle Takekura notando per l’ennesima volta quanto fossero simili.
    Al contrario di altre coppie di gemelli, le due sembravano non essere intenzionate a differenziarsi l’una dall’altra. Portavano lo stesso taglio di capelli, che cadevano scuri e lisci sulle spalle, ed inoltre quando uscivano vestivano praticamente allo stesso modo.
    Era complicato distinguerle - almeno per chi non le conosceva - e una volta erano arrivate addirittura a dichiarare: « Se capita ci scambiamo di ruolo, è utile avere un doppione», ed era effettivamente una cosa che avevano fatto più volte, fortunatamente per Misaki, lei le conosceva bene ed era raro che cadesse nelle loro trappole - Risa aveva la voce leggermente più squillante di Saori.
    « Meglio Saori», rispose qualche momento dopo, per poi rivolgersi al resto della squadra, « non è niente di grave, davvero».
    « Meno male…», sospirò una ragazza, la più bassa di quel gruppetto con il suo metro e sessantacinque.
    « Quando sono venuti gli stangoni del club di basket abbiamo subito pensato al peggio!», esclamò Risa.
    « Peggio?»
    « Queste due dementi volevano menare subito le mani», spiegò un’altra ragazza scuotendo il capo e facendo ondeggiare i lunghi capelli castani. Era forse la più alta del gruppo, forse superava tranquillamente il metro e ottanta.
    « Non ispirano fiducia», spiegò Saori con tono sospettoso, « poi ti hanno fatta male, devono pagare per questo affronto! La mia Misa-chan ora ha il naso come quello di Rudolf!»
    Misaki arrossì davanti a quell’affermazione, e per tutta risposta le donò un pizzicotto abbastanza violento sul fianco che la fece mugolare.
    « Piantatela! Non vedete che non siamo sole?», le riprese imbarazzata lanciando delle occhiate prima all’infermiera - che aveva deciso di farsi gli affari suoi - e poi ad Ayako, verso la quale si rivolse poco dopo, « Ragazze devo presentarvi la manager del club di basket. Ayako Inowaki, è stata lei ad accompagnarmi qui»
    Solo in quel momento le attenzioni si spostarono da Misaki all’altra ragazza che sorrise alzando la mano in segno di saluto.
    « Salve a tutte»
    « Ti devo ringraziare a nome di tutta la squadra, Inowaki-san», dichiarò la più alta del gruppo, facendo un inchino rivolta ad Ayako. Frequentava il terzo anno ed era lei la voce della ragione della squadra - il resto del gruppo era quasi sempre calmo, ma talvolta era impossibile non lasciarsi trascinare dalle due gemelle.
    « Io sono Junko Fujimura, sono il capitano della squadra», si presentò poi, « e quelle due maleducate sono Risa e Saori Takekura»
    Le due gemelle si esibirono in una poco matura linguaccia che fece ridacchiare Ayako.
    « Io sono il vice capitano. Terzo anno! Mari Futami!», prese subito la parola la più bassa del gruppo sorridendo affabile e facendo ondeggiare l’alta coda che teneva raccolti di suoi lunghi capelli corvini.
    « Lieta di conoscervi», rispose Ayako, stringendo la mano prima a Junko e poi a Mari, facendo poi lo stesso con Risa e Saori.
    « E comunque è stato un incidente», riprese Misaki - si sentiva molto più a suo agio circondata da quelle che considerava le sue migliori amiche, « Sakuragi non voleva colpirmi apposta, è stato solo un rimbalzo andato a male»
    « Se lo dici tu…», borbottò Risa.
    « Ma ti pare che uno che neanche mi conosce abbia voluto colpirmi apposta?», esclamò Misaki, emettendo poi un mugugno nell’aver mosso troppo i suoi muscoli facciali doloranti.
    « Dai ragazze, piantatela. Quante volte vi siete beccate delle pallonate in faccia?», fece presente Hitomi riuscendo per miracolo a far star zitte le due gemelle.
    « Esattamente», rincarò Junko, « l’importante è che Kanno non si sia fatta troppo male»
    « Già da domani ritornerò ad allenarmi, capitano», dichiarò decisa Misaki, ma il suo entusiasmo venne smorzato dall’infermiera.
    « Vedremo signorinella», si intromise, « Domani devi tornare qui per un controllo e se vedo che è tutto a posto ti darò il permesso di andare a fare gli allenamenti, intesi?»
    « Sì…», annuì.
    « Vedrai che starai bene», la incoraggiò Saori.
    « Esatto, hai la testa dura», assentì Risa annuendo con aria consapevole, strappando una risata a tutte le ragazze presenti - tranne a Misaki che, per quanto divertita, cercò di non lasciarsi andare.
    « Va bene, va bene…», sospirò la ragazza, « le altre stanno continuando ad allenarsi?»
    « Sì, con l’allenatrice», assentì Junko, « E ora che abbiamo visto che stai bene possiamo tornare in palestra a rassicurare le altre»
    Misaki assentì e guardò Ayako come per invitarla a fare lo stesso, era certa che i ragazzi del basket avessero bisogno di lei.
    « Forse è meglio che vada anche io, sei in buone mani con l’infermiera poi tra qualche momento dovrebbero arrivare i tuoi genitori», dichiarò infatti la manager alzandosi.
    « Ti ringrazio per avermi fatto compagnia, Inowaki-san», cercò di non sorridere ma le fu impossibile non piegare le labbra in un sorriso carico di gratitudine.
    « Chiamami pure Ayako», ribatté subito la ragazza, « e per me è stato un piacere conoscere tutte voi, nonostante le circostanze», ridacchiò.
    Già, le circostanze erano abbastanza dolorose, ma in futuro Misaki si sarebbe ritrovata a ringraziare Hanamichi Sakuragi per quella fortuita pallonata… anche se in quel momento Misaki non poteva saperlo.






  13. .
    Titolo: Just Kiss him
    Fandom: Cast Pacific Rim
    Personaggi: Charlie Day, Burn Gorman
    Genere: Introspettivo, Fluff
    Rating: Verde
    Avvertimenti: Slash, Flashfic
    Conteggio Parole: 375
    Note: 1. Come sempre la dedico al mio amore<3





    Burn dorme e l'unica cosa che Charlie riesce a fare è fissarlo e sospirare come una ragazzina.
    Non riesce a non chiedersi come sia stato possibile per lui cadere in quella trappola, ma quando i suoi occhi tornano sul volto di Burn - con le sue labbra socchiuse e le lunghe ciglia che gli carezzano le guance -, scopre per l'ennesima volta che gli piace essere 'innamorato' di lui.
    Burn non è bellissimo, ma a Charlie non importa: a lui piace e basta.
    Ai suoi occhi è affascinante oltre che simpatico ed adora la sua risata.
    E nel pensare quelle cose, Charlie si sente per davvero una ragazzina idiota.
    Ma che ci può fare?
    Non può semplicemente scegliere di non amarlo più da un momento all'altro.
    I suoi sentimenti non hanno un interruttore anche se, ironicamente, riesce quasi a paragonarli ad una lampadina.
    Una di quelle pronte a scoppiare per la troppa tensione elettrica; e Charlie sa che, prima o poi, finirà come una di quelle lampadine e la cosa lo preoccupa.
    Sarebbe saggio cercare di sfogare un po' di quella tensione ma non sa come... o almeno non senza rovinare il rapporto che ha con Burn.
    Anche perché ammazzarsi di seghe sembra non aiutarlo più!
    Si concede allora un altro sospiro e continua a fissare l'altro, fortunatamente ignaro dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti.
    Prova a chiamarlo, ma non ottiene alcuna risposta.
    Forse potrebbe... baciarlo.
    Lo chiama nuovamente, deciso a scacciare quel pensiero, ma Burn continua a dormire.
    Si lecca le labbra.
    Un solo assaggio non lo ucciderà, si dice.
    Non è una buona idea ma sa che quella potrebbe essere un'occasione per ritardare l'inevitabile, per evitare di finire distrutto da tutta quella tensione.
    Quindi lo bacia.
    Gli sfiora leggermente le labbra solo per sentirne la consistenza e mettersi il cuore in pace, ma quando cerca di allontanarsi - soddisfatto ed imbarazzato -, una mano sulla sua nuca lo blocca e lo costringe ad un bacio più profondo.
    Gli sfugge un verso stupito quando la lingua di Burn sfiora la sua e quello lo spinge ad allontanarsi velocemente.
    « Ma che...?»
    « Finalmente ti sei deciso», ridacchia Burn, « pensavo non avessi le palle per farlo!»
    Charlie balbetta, stupito e ancor più imbarazzato di prima.
    Poi, forse arrabbiato per le risate dell'altro, decide di mandarlo letteralmente a quel paese con un bacio ben più profondo del precedente.




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    Outside a Saint, Inside a Devil


  14. .
    Titolo: Now I can call you by name?
    Fandom: Pacific Rim
    Personaggi: Newton Geiszler, Hermann Gottlieb
    Genere: Introspettivo, Erotico
    Rating: Rosso
    Avvertimenti: Oneshot, Slash, OralSex
    Conteggio Parole: 815
    Note: 1. Thomas voleva una fic su questi due p0rno. Ho detto “dammi la tua immagine preferita e te la scrivo” ed ecco qui la fic XD
    2. Ambientata prima del film… credo XD
    3. Come sempre la dedico al mio amore<3
    4. Se ve lo chiedete... no: non è betata XD


    xeTSVKZ



    Se qualche settimana prima avessero detto ad Hermann che avrebbe goduto nell'avere la testa di Newton tra le gambe, avrebbe riso sarcasticamente ed avrebbe risposto che era una cosa talmente illogica che non avrebbe neanche perso tempo a pensarci su.
    In fondo, perché avrebbe dovuto 'provare godimento' per una cosa del genere? Con un perfetto idiota come Newton oltretutto.
    Forse, e ripeteva 'forse', perché era maledettamente bravo nel fare quello che stava facendo - e forse, aggiunse con un pizzico di cinismo, era più dotato in quel campo che come scienziato.
    Era assurdo - oltre che affascinante - come la mente umana fosse in grado di fare delle 'associazioni' che, ovviamente, comportavano altrettante 'conseguenze' inaspettate.
    Ricordava - vagamente, certo - che avevano iniziato a discutere sui Kaiiju e sui loro diversi metodi d'analisi.
    Come era prevedibile, Hermann aveva la situazione sotto controllo, era anche pronto a far partire un ipotetico conto alla rovescia per quando Newt si sarebbe arreso all'evidenza della sua netta inferiorità.
    Ai suoi occhi appariva solo come un ragazzino, con tutti quei tatuaggi e le teorie sulla vita dei Kaijuu, e non poteva in alcun caso competere con lui.
    Tuttavia, Newton restava pur sempre una persona, ed il problema del fattore 'umano' era proprio l'imprevedibilità - e di certo a quel tipo non mancava una buona dose di follia.
    Di fatti, da quell'argomento erano arrivati a parlare dei Piloti di Jaeger, di rockstar e di cosa aveva bisogno il mondo in quel periodo.
    Come erano poi arrivati al sesso?
    Hermann non riusciva proprio a ricordarselo, gli aveva però detto di non chiamarlo per nome - cosa che aveva fatto ridere non poco l'altro.
    Si era semplicemente ritrovato con il sedere sulla scrivania, i pantaloni aperti e... e la bocca di Newton che si muoveva sulla sua erezione aiutandosi con la mano.
    Tentò ancora di dare una spiegazione a quella situazione - era una sopra di 'maniaco del controllo', per quel motivo gli piacevano i numeri -, ma i suoi sensi erano ormai così offuscati che si sentiva solo in grado di gemere cose senza senso - sì, proprio lui che si era sempre vantato della sua capacità linguistica -, stringendo al tempo stesso le dita attorno ai capelli del 'collega'.
    Gli stava facendo male?
    " Poco importa", sbottò mentalmente, tirandogli i capelli per costringere la sua bocca ad ingoiare più carne possibile, ricevendo come risposta un gemito infastidito che tremò piacevolmente sulla sua erezione.
    Distrattamente, mentre ansimava e mugugnava carico d'approvazione per le 'doti orali' del suo collega, Hermann si chiese quest'ultimo avesse mai preso in considerazione l'idea di dedicarsi a qualcos'altro e non allo studio dei Kaiiju, perché con la bocca chiusa ed occupata risultava davvero facile sopportare la sua presenza.
    Non riuscì a trattenere un sorriso per quel pensiero, tirando poi indietro il capo in un gemito quando Newton passò la lingua sul glande, tastando al tempo stesso i suoi testicoli con le dita.
    Era bravo, maledettamente bravo. Ma, ovviamente, avrebbe tenuto per sé quell'apprezzamento - il suo corpo parlava già in modo abbastanza chiaro.
    Sospirò, muovendo il bacino con impazienza ed ignorando volutamente tutti i campanelli d'allarme che gli stavano ricordando tutti quei fattori 'per cui sarebbe stato indecente farsi fare un lavoro orale dal proprio collega in orario d'ufficio', perché giunti a quel punto desiderava solo raggiungere l'orgasmo che, fortunatamente, non tardò ad arrivare grazie alle doti di Newton - erano naturali o era solito fare 'quelle cose'?
    Le sue ginocchia tremarono, minacciando di credere da un momento all'altro, e fu in quell'istante che Hermann ringraziò distratto la scrivania alle sue spalle che gli dava tutto il supporto che il suo corpo non era più in grado di assicurargli.
    In un'altra occasione forse sarebbe stato in grado di analizzare quella situazione - magari era per via dei mesi di astinenza oltre che per la stupidità di Newton - ma da quel momento in poi poté solo fare appello a tutte le sue forze per non gemere mentre raggiungeva l'orgasmo.
    Fallì miseramente e gli sfuggì un verso talmente ridicolo che sarebbe stato sicuramente in grado di farlo morire per l'imbarazzo. Tuttavia, Newt non commentò quando si allontanò dal suo sesso - alle sue orecchie giunse un osceno 'pop' umido che lo fece tremare ancora -x, limitandosi invece a sputare il suo sperma nel cestino e a pulirsi le labbra con un fazzoletto - che raggiunse a sua volta in cestino.
    Rimase in silenzio ad osservarlo - si sentiva ridicolo con i pantaloni ancora aperti ed il pene a penzoloni -, incapace per la prima volta di formare una qualsiasi frase di senso compito.
    Newt, esattamente come poco prima, sembrava al contrario a suo agio e gli rivolse uno sguardo divertito prima di prenderlo alla sprovvista e invadergli la bocca con un bacio.
    Stupito da quel gesto, e dal suo stesso sapore, Hermann non riuscì a reagire e neanche ad assumere un'espressione più intelligente quando il suo collega si allontanò per rivolgergli una semplice domanda: « Ora credi che possa chiamarti per nome, Herm?»





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    Edited by p r i n c e s s KURENAI ~ - 2/9/2013, 02:12
  15. .
    Titolo: The date? Uhm, in the summer probably.
    Fandom: RPF Attori
    Personaggi: Dean O’Gorman, Aidan Turner
    Genere: Introspettivo, Fluff, Erotico
    Rating: Rosso
    Avvertimenti: Oneshot, Slash, What if? (E se...), Lemon
    Conteggio Parole: 1645
    Note: 1. Tratta da una scena adorabile alla Convention di Boston ovvero:
    Question: When are you two planning to get married or whatever?
    Dean: What day did we set?
    Aidan: The date? Uhm, in the summer probably.
    Dean: New Zeland summer?
    Aidan: Yeah, we'll sort it out.


    2. Li amo çAç punto çAç sono i miei cucciolini çAç *sparge amore*
    3. Non betata >w<




    Quando Aidan chiuse alle sue spalle la porta dell'albergo nel quale alloggiava, non poté non concedersi un sospiro sollevato dinnanzi a quell'improvvisa e tanto desiderata pace.
    Era la prima volta da quando era iniziata la convention che poteva dirsi finalmente 'solo'. Nessun fans - per carità, adorava tutte quelle persone ma al termine della giornata era sempre esausto -, nessun accecante flash né tanto meno manager che lo seguivano per ricordargli i vari impegni.
    Socchiuse gli occhi, assaporando il rassicurante silenzio che lo circondava e pregustando addirittura una lunga e rilassante dormita, salvo poi ritrovarsi a spezzarlo lui stesso con un mugugno quando delle familiari labbra si posarono sulle sue cariche di necessità.
    " Che altro posso desiderare?", si chiese sorridendo mentre assecondava con gioia ed altrettanto bisogno quel bacio.
    Lui e Dean erano soli in quella stanza, e non avrebbe potuto chiedere di meglio.
    Alzò le braccia per poterlo stringere a sé, carezzandogli la schiena da sopra la maglietta che indossava per osare poi insinuare le mani sotto quella leggera stoffa per sfiorarne la pelle nuda.
    Quel leggero contatto strappò un brivido al suo compagno che, afferrandolo con sicurezza per i fianchi, mise fine a quel bacio stringendogli il labbro inferiore con i denti prima di tirarlo leggermente con fare malizioso.
    Aidan non riuscì a non sospirare per quel trattamento, e quando Dean si allontanò del tutto fu solo in grado di rivolgergli uno sguardo alquanto eloquente.
    Erano soli, e visti i futuri impegni di entrambi era certo che sarebbero stati troppo occupati per riuscire a ritagliare del tempo solo per loro... dovevano assolutamente approfittarne e rinunciare a qualche ora di sonno.
    « Quest'estate, eh?», esordì Dean ignorando il suo sguardo per donargli invece un sorriso divertito al quale Aidan non fu in grado di resistere. Ed infatti, mugugnando in risposta a quella domanda, andò a baciargli le guance e le fossette che si creavano quando sorrideva in quel modo, soffermandosi poi il più delle volte sulle labbra senza però violarle.
    « Ci sposiamo, no?», spiegò Dean, godendosi beato le attenzioni di Aidan, il quale sbuffò una risata contro la sua pelle.
    Era divertente, oltre che curioso e talvolta imbarazzante, scontrarsi con le fantasie delle loro fans, e quella domanda che era stata rivolta loro durante il panel qualche ora prima andava perfettamente ad incontrarsi una situazione molto reale e poco fantasiosa.
    A dirla tutta, non avevano mai affrontato quell'argomento - Aidan forse per via del suo primo matrimonio e Dean per le troppe difficoltà che avrebbero dovuto affrontare e che, sinceramente, un po' lo spaventavano -, eppure quando avevano risposto a quella domanda erano solamente stati in grado di scherzarci su come se fossero d'accordo già da tempo.
    « Così pare», sussurrò in risposta l'irlandese, « diventeresti il 'signor Dean Turner'. Non suona male vero?»
    « Neanche 'signor Aidan O'Gorman' sembra malaccio, non trovi?», ribatté divertito Dean.
    « Te lo concedo. Non è male», assentì, carezzandogli ancora la schiena prima di tuffarsi sulle sue labbra per reclamare un altro bacio.
    Era complicato riuscire a stare lontano dalla sua bocca e da quel modo così irresistibile che aveva di sorridere - gli angoli delle labbra si arricciavano e si formavano quelle adorabili fossette -, anche davanti ad un argomento così delicato.
    Voleva sposarsi di nuovo?
    Non ne era certo ma sapeva di non poter fare a meno di Dean e della sua costante presenza.
    Cercò quindi di allontanare quei pensieri - magari sarebbero tornati sull'argomento in seguito - e di trascinare al tempo stesso il suo compagno verso il letto.
    Lo spinse sopra senza troppi problemi, reclamando ancora e ancora le sue labbra in dei baci interrotti solo dai loro indumenti che venivano lanciati sul pavimento senza troppi complimenti.
    Avevano ormai dimenticato la stanchezza, ed incoraggiati dalle loro crescenti erezioni continuarono a spogliarsi e a baciarsi, guidati da quella fretta che ormai caratterizzava quasi tutti i loro fugaci incontri.
    Aidan rimpiangeva non poco i momenti passati in Nuova Zelanda, quando entrambi - nonostante fossero il più delle volte esausti - potevano concedersi dei calmi momenti di intimità. Certo, neanche lì mancavano le classiche sveltine, ma il più delle volte riuscivano a passare delle serate davvero piacevoli.
    Erano sempre insieme, alle volte nella sua roulotte ed altre in quella di Dean... e a ben pensarci, alla luce della 'famosa domanda' del panel, la loro vita dietro le telecamere de Lo Hobbit era quasi da 'neo-sposini in una luna di miele perenne'.
    Era raro vederli separati, e oltre il sesso c'erano anche non poche coccole e qualche litigio che risolvevano sempre nel giro di poco.
    Sarebbe stato bello poter tornare indietro e riacquistare la sicurezza di poter passare quasi tutta la giornata in compagnia della persona amata...
    Quel pensiero, ovviamente, lo costrinse a pensare ancora al matrimonio.
    Si chiese se sposandosi avrebbero riottenuto quella situazione, se sarebbero stati in grado di vedersi più a lungo e non solo per una notte di sesso.
    Forse la risposta era affermativa ma i gemiti che stavano iniziando ad abbandonare le labbra di Dean mentre lo preparava, si dimostrarono abbastanza lascivi da essere in grado di riportarlo con i piedi per terra.
    Dean era lì in quel preciso istante e, per quanto lontano e complicato potesse apparire, ci sarebbe stato anche del futuro.
    Si aggrappò a quella consapevolezza, e sfilando le dita dall'apertura arrossata del suo amante andò ad accostarvi la propria erezione.
    La sfregò contro l'orifizio, mugugnando e tentando di mantenere un certo controllo che venne meno quando Dean, esasperato da quella lentezza, lo baciò soffiando sulle sue labbra qualcosa di estremamente osceno.
    Aidan cercò ancora la bocca del suo compagno pur di farlo tacere - Dean poteva farlo venire solo parlando, era troppo sensibile alle oscenità che uscivano da quelle labbra e al suo accento -, iniziando però a spingersi oltre lo stretto anello muscolare che si chiudeva attorno al suo sesso.
    Soffocato da quel calore, l'irlandese iniziò a far ondeggiare il bacino, accogliendo della sua bocca i versi compiaciuti, ma anche un po' doloranti, del suo amante.
    Solo qualche momento dopo riuscì ad affondare del tutto nell'orifizio del neozelandese, e nascondendo il volto nell'incavo del collo di quest'ultimo, Aidan si concesse un verso sollevato prima di riprendere a muoversi.
    I loro gemiti si mischiarono rapidamente e Dean, pur di impedire al suo amante di allontanarsi troppo, alzò le gambe per cingere la vita di Aidan, accompagnando poi ogni spinta con dei versi entusiasti.
    Era mancata ad entrambi quella pace dei sensi, tant'è che se fosse stato per loro avrebbero continuato per tutta la notte fino a crollare stremati ma soddisfatti. L'unico problema di quel momento era che entrambi erano già esausti e con l'approssimarsi dell'orgasmo sentirono le loro energie scivolare via dai loro corpi insieme al seme che schizzò sul petto di Dean quando raggiunse l'apice, imitato poco dopo anche dall'irlandese.
    Si scambiarono un bacio umido e stanco, e mugugnando quasi indolenzito, il neozelandese iniziò con l'abbassare le gambe per permettere ad Aidan di allontanarsi dal suo corpo per distendersi.
    Erano ben consci che in un'altra occasione avrebbero ripreso ad accarezzarsi e a giocare con i loro corpi fino ed essere in grado di sostenere un secondo round, ma dopo quella giornata i due attori sentivano il bisogno di dormire almeno per qualche ora.
    Infatti, stanchi ma soddisfatti, si concessero entrambi una breve doccia prima di crollare di nuovo sulle lenzuola sfatte, stringendosi l'un l'altro in un abbraccio.
    Si augurarono una veloce "buonanotte" prima di spegnere la luce e chiudere gli occhi in attesa di cadere tra le braccia di Morfeo. Tuttavia, nonostante la stanchezza, Aidan non riuscì a prendere sonno... tant'è che dopo mezz'ora di forzato silenzio si ritrovò ad aprir bocca.
    « Deano... sei sveglio?», il neozelandese mugugno, stringendolo a sé come per dargli una risposta, « Vorrei che fosse vero», continuò sincero Aidan.
    Dean ci mise qualche istante prima di assimilare le parole del suo compagno senza tuttavia comprenderne il nesso.
    « Cosa?»
    « Sposarci...», sussurrò l'irlandese così piano che lui stesso temette di aver pronunciato quelle parole solo nella sua testa.
    Non poteva dire di averci ragionato a lungo, ma più volte in quella serata i suoi pensieri erano andati su quell'argomento e sulla domanda che aveva causato quello sconvolgimento.
    Era già stato sposato una volta, ed il suo matrimonio era durato solo pochi anni. Ed anche se quello che aveva provato per Charlene non era neanche lontanamente paragonabile a quel forte sentimento che lo legava a Dean, non poteva fare a meno di temere quell'unione... tuttavia non riusciva neanche a non desiderarla.
    Il vivere con Dean e l'idea di poter creare una famiglia con lui, appariva ai suoi occhi come la cosa più bella che sarebbe mai potuta accadergli.
    « Lo vorresti davvero?», chiese il neozelandese, senza nascondere un tono sorpreso ed Aidan si limitò ad annuire sincero contro il suo collo.
    Dean rimase inizialmente in silenzio davanti a quella muta risposta, stupito ed in un certo qual modo anche esaltato per quella rivelazione - il sonno era stato spazzato via all'istante.
    « Lo vorrei anch'io», rispose qualche attimo dopo. Non poteva negare un certo disagio nel parlare di quell'argomento che segnava un netto passaggio da una relazione per così dire leggera ad una decisamente più seria, tuttavia le sue labbra iniziarono sin da subito a piegarsi verso l'altro ed anche se Aidan non poteva vederle era certo che potesse sentire il gioioso battito del suo cuore.
    « Davvero?»
    « Cazzo, sì!», sbottò O'Gorman.
    « Non sarà semplice», gli ricordò Aidan. « Io sono già stato sposato e...»
    « Beh, non con me!», tagliò corto Dean. « Ho paura anch'io. Responsabilità e tutto il resto... ma lo vorrei anche io, ti voglio sposare».
    Turner parve trattenere il respiro ma quell'impressione durò solo qualche attimo.
    « Non desidero altro!», rispose velocemente, sollevandosi per cercare al buio il viso del compagno, lasciandosi guidare dal respiro che gli carezzava il volto.
    « Bah, allora facciamolo no?»
    « Ti amo, signor Dean Turner», dichiarò Aidan ridendo.
    « Ti amo anch'io, signor Aidan O'Gorman».
    « Estate, quindi?», continuò a ridacchiare l'irlandese, senza nascondere una certa leggerezza nella sua voce che contagiò subito anche Dean.
    « Estate», confermò infatti, cercando poi le sue labbra come per suggellare quella promessa.



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    E visto che ci sono vi spammo anche la mia prima storia originale! :3






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